A trent'anni dalla strage di via D'Amelio, da Claudio Fiore, figlio della sorella Rita, un ritratto a tutto tondo del magistrato ucciso dalla mafia con i cinque agenti della scorta

di Francesco FISONI
Agensir, da “Toscana Oggi”

Foto Ansa / Sir
Foto Ansa / Sir

Claudio Fiore, nipote di Paolo Borsellino e figlio di Rita Borsellino, aveva 22 anni il 19 luglio 1992, giorno dell’attentato in cui persero la vita, proprio sotto casa sua in via D’Amelio, lo zio Paolo e i cinque agenti della scorta. Fiore vive nella campagna di San Miniato in provincia di Pisa: in questa intervista a Toscana Oggi ricorda quei giorni e ci regala un ritratto a tutto tondo dello zio.

Claudio, tra la morte di Giovanni Falcone e l’attentato a tuo zio Paolo corrono 57 giorni. Che ricordi hai di quelle settimane e com’era il clima in famiglia?
Ai funerali, celebrati nella chiesa parrocchiale di Santa Luisa di Marillac, proprio di fronte alla sua abitazione, c’era davvero tutta Palermo… Mi accorsi di non essere solo a vivere quel dolore. Il confronto con quelli che erano stati i 57 giorni precedenti è quasi impietoso, nel senso che nelle settimane successive all’attentato a Falcone, ricordo che lo zio Paolo aveva il volto particolarmente provato, con una fatica dettata soprattutto dal dolore di quello che aveva dovuto vivere: era stato l’ultimo a vedere Giovanni Falcone in vita, che gli era morto praticamente tra le braccia in ospedale.

Era consapevole che da lì a poco sarebbe toccata anche a lui la stessa sorte. Allora in quei 57 giorni cominciò a lavorare a testa bassa; diceva spesso: «Non ho più tempo, devo fare presto!»…
Quando poi seppe dell’arrivo a Palermo del tritolo a lui destinato, paradossalmente, mi sembrò che cominciasse quasi a essere più sereno. Erano giorni estremamente concitati e complicati, non era più facile incontrarlo come prima. Vedevo anche mia madre Rita molto tesa rispetto a tutto quanto ci stava capitando… La mamma, come intuendo il peggio, non perdeva occasione per fare visita al fratello, almeno quando le circostanze glielo permettevano. In quei giorni critici si era poi intensificata la nostra attenzione rispetto ai movimenti sospetti sotto casa; io abitavo proprio in via D’Amelio, dove era l’appartamento dei miei genitori e dove in quel periodo viveva anche mia nonna Pia, la mamma dello zio Paolo. Qualsiasi cosa notassimo, auto o persone sospette, lo segnalavamo immediatamente. In quell’ultimo periodo, per motivi di sicurezza, lo zio non ci faceva quasi mai sapere prima quando ci sarebbe venuto a trovare.

Ricordo la polemica che s’innescò nei giorni successivi all’attentato sul perché nessuno avesse vietato il parcheggio delle auto in Via D’Amelio…
Lo chiedevamo anche noi allo zio Paolo, e in linea con quello che lui stesso era, ci diceva: «Ci sono persone che hanno in carico la mia sicurezza, questo è compito loro». Aveva una grande fiducia nello Stato e nel rispetto dei ruoli. Non puoi fare quel tipo di lavoro, per spirito di servizio, se non hai anche un forte senso dei compiti affidati a te e un rispetto massimo dei ruoli e delle responsabilità altrui, fino al punto di affidare la tua sicurezza alle persone che ce l’hanno in carico.

Cosa ricordi di quel 19 luglio?
La mattina di quella domenica io lasciai via D’Amelio per andare alla casa al mare di famiglia. A casa rimase la nonna che nel pomeriggio doveva essere accompagnata proprio dallo zio a una visita cardiologica. Passammo una giornata serena, finché non ci raggiunse un cugino che villeggiava vicino a noi, aveva gli occhi lucidi. Dopo ricordo mia madre accendere un piccolo televisore portatile a batterie e cadere subito in ginocchio davanti al monitor. Provai a vedere qualcosa da quel minuscolo schermo in bianco e nero e vidi passare la scritta in sovraimpressione che diceva che lo zio non c’era più. Tornammo di corsa a Palermo. In via d’Amelio c’erano ancora i pompieri, polizia dappertutto e una marea di gente. Facemmo molta fatica ad avanzare. Mio padre volle giungere fin sul punto dell’esplosione. Ricordo di averlo visto ritornare, poco dopo, con il viso e le mani annerite, e porgere una mano alla mamma: «Gli ho fatto un’ultima carezza»… E rivedo mia mamma Rita in lacrime baciare quella mano.

C’è un toccante scritto di tuo cugino Manfredi, il figlio di Paolo, che racconta gli ultimi giorni di tuo zio e in particolare quell’ultima sua domenica. Leggendolo si resta stupiti dalla forza d’animo e dal coraggio di tua cugina Lucia, che volle essere all’Istituto di medicina legale di Palermo per ricomporre i resti del padre e per vestirlo. E poi il giorno dopo, lunedì 20 luglio, Lucia aveva un esame all’università e si presentò per sostenerlo davanti a una commissione incredula per così tanta forza d’animo. Da dove veniva questo coraggio?
Questo era lo zio Paolo… Lui era così. Fin da quando i suoi figli erano ragazzini, ricordo perfettamente che alle uscite con gli amichetti diceva loro scherzando: «Dimmi dove vai, lasciami un numero di telefono, perché se mi ammazzano come faccio sennò ad avvertirti?». Col senno di poi è una cosa veramente edificante: lui aveva cresciuto i suoi figli e abituato tutti noi in famiglia, fin dall’inizio, a quella che sarebbe stata la fine del percorso. Un distacco e un senso di responsabilità da parte sua che riconosco anche in altre vicende: quando gli venne per esempio assegnata la scorta con l’auto blindata, era il periodo in cui era in servizio presso la procura di Marsala, pretese di guidare da solo l’auto; la scorta lo seguiva in un’altra auto dietro; diceva infatti: «Se deve succedere qualcosa, voglio che siano coinvolte meno persone possibile». Lui, in buona sostanza, offriva coscientemente la possibilità a chi voleva ucciderlo, di farlo senza far male a nessun’altro. Per esempio, quando era al mare prendeva di nascosto la Vespa della figlia, indossava anche il suo casco rosa, ed eludendo la scorta, scappava in paese a prendere il pane; e lo sapevano tutti in paese che il giudice Borsellino andava a comprare il pane da solo.

Perché allora la mafia ha agito in modo così eclatante, con mezzi così roboanti, quando tuo zio poteva essere colpito in qualsiasi momento in modo quasi ordinario, viste le sue abitudini?
C’era una volontà di potenza in chi l’ha colpito, come a voler dare un messaggio. L’obiettivo secondo me era quello di seppellire definitivamente la memoria di Borsellino, Falcone e con loro di tutta Palermo. Ma sul momento il risultato che ottennero fu esattamente l’opposto, perché a Palermo mai si era vista una reazione popolare come quella che seguì alle due stragi.

In effetti le stragi del ‘92 e ‘93 misero in moto un grande fermento nella società civile. A distanza di trent’anni esiste ancora questa capacità di reazione nell’opinione pubblica o lo smalto iniziale si è un po’ affievolito?
È fuor di dubbio che negli ultimi anni questo fermento è andato scemando e non è stato supportato fino in fondo da chi di dovere, anche se occorre dire che ha avuto una spinta propulsiva di lungo periodo, durata almeno vent’anni. La politica, almeno inizialmente, è stata quasi costretta, tirata per i capelli, a gestire questa rabbia e questa voglia di verità e giustizia che proveniva dalla società civile; ma appena ne ha avuto l’occasione ha cercato di portare l’impegno semplicemente sulle celebrazioni. Poi ovviamente c’è un dato cronologico: stiamo parlando di eventi di trenta anni fa e tanti testimoni e protagonisti di quei giorni, oggi non ci sono più. Adesso, a ogni 19 luglio, in via D’Amelio siamo ridotti a essere poche centinaia di persone quando i primi anni eravamo migliaia.

Parliamo della fede di tuo zio… Un cristiano a visiera alzata, dalla fede profondissima ma mai ostentata…
Ricordo che si confessava spesso in quel periodo. Diceva che doveva essere sempre pronto. La domenica mattina si alzava presto per andare alla celebrazione della Messa. Davanti alla sua abitazione c’era un ingresso di servizio al retro della sua chiesa parrocchiale. Questa cosa mi ha sempre colpito: per lui era come un accesso diretto e discreto, da utilizzare tutte le volte che desiderava pregare e cercare la serenità di cui aveva bisogno. La fede lo aiutava, credo, anche a essere quella persona gioiosa e cordiale che ho sempre conosciuto.

Quanto dici mi fa venire in mente cose che ho letto riguardo ai modi garbati con cui tuo zio interagiva con gli indagati per mafia: il rispetto, la gentilezza, una capacità di contattare la persona al di là dell’etichetta malavitosa…
Questo spiega anche, secondo me, il motivo dei suoi successi investigativi e il perché tante tra le persone inquisite volessero parlare proprio con lui e Giovanni Falcone. C’è una storia che ancora oggi mi apre il cuore: è la vicenda di Vincenzo Calcara, un killer di mafia. Durante un interrogatorio Calcara raccontò allo zio che proprio lui era stato incaricato di ucciderlo. Un’altra persona forse si sarebbe spaventata o irrigidita a una confessione del genere. Lo zio Paolo no. Quella confidenza fu l’innesco di un’amicizia sincera tra loro due. Ricordo un particolare: un giorno lo zio doveva ascoltarlo e venne a sapere che pochi giorni prima del giorno fissato per l’interrogatorio, cadeva il compleanno di Calcara, per cui non ci pensò due volte: anticipò l’incontro andandolo a trovare proprio il giorno del compleanno. Lo trovò trascurato, con la barba lunga. Gli disse che era andato apposta, sì per interrogarlo, ma anche per fargli gli auguri e nella stessa circostanza lo invitò a farsi la barba, pregandolo di non trascurarsi e di avere cura di sé. Questo, come altri episodi – gli portava per esempio sempre delle sigarette -, toccarono il cuore di Vincenzo Calcara che divenne collaboratore di giustizia.

Parliamo troppo poco degli “angeli custodi” di tuo zio, gli uomini e le donne della sua scorta che hanno perso la vita insieme a lui…
Il 19 luglio del ‘92 la nonna Pia venne soccorsa dai vigili del fuoco e trasferita in ospedale. Quando mia mamma Rita la raggiunse la prima cosa che la nonna le disse fu: «Non stare qui da me, vai a cercare le mamme dei ragazzi della scorta». Con i congiunti dei ragazzi della scorta ci siamo così ritrovati a essere, piano piano, come dei familiari. Un vincolo profondissimo. Sono persone che non sento di frequente, ma quando le vedo è come fossero una parte di me. E ogni 19 luglio per noi è festa anche semplicemente per il fatto di stare insieme a loro.

Hai tre figlie, di cui una piccola… Cosa vorresti restasse e arrivasse loro della temperie morale e del coraggio di tuo zio Paolo e di tua mamma Rita?
Le due più grandi hanno conosciuto e vissuto l’impegno della nonna Rita, che per anni ha portato avanti, soprattutto nelle scuole e poi in politica, la testimonianza e il ricordo del fratello. Oggi loro hanno un rapporto molto forte con Palermo, nonostante siano nate in Toscana. La piccolina, che ha cinque anni e mezzo, è ancora troppo piccola. Piano piano, crescendo, arriverà anche a lei la storia dello zio e della nonna Rita.

 

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