In Italia 2,6 milioni di persone hanno un’occupazione che non garantisce una vita dignitosa. Su «Il Segno» di giugno ne parla la sociologa Rosangela Lodigiani
di Rosangela
LODIGIANI*
Il mercato del lavoro è fatto di persone vive, con la loro vita concreta; persone che si misurano quotidianamente con le loro aspettative e preferenze, ma anche i vincoli e le opportunità che derivano dalla loro condizione personale e famigliare, dalle occasioni di lavoro offerte dal contesto economico-produttivo, dalle caratteristiche che queste hanno, dalle politiche e dai servizi che supportano nel cercare un (nuovo) lavoro. Eppure, rischiamo di dimenticarlo. Ci ammoniva così il mio primo professore di Sociologia del lavoro, con parole che ora a mia volta rivolgo agli studenti e alle studentesse che ho il privilegio di incontrare nelle aule universitarie.
Perché è importante ricordarlo? Perché se leggiamo che sale il tasso di disoccupazione significa che sono aumentate le persone che sono alla ricerca attiva di un lavoro, che investono tempo, energie e speranze in questa ricerca, che sono tornate a cercare un impiego perché licenziate o perché dopo un periodo di inattività hanno deciso di rimettersi in gioco; scoraggiate, magari poco qualificate, o al contrario con elevate competenze, che cercano un lavoro migliore del precedente, fiduciose di poterlo raggiungere. Perché se leggiamo che è salito il tasso di occupazione abbiamo bisogno di capire quale tipo di lavoro è stato trovato, quanto corrisponde alle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici, delle loro famiglie, se è adeguatamente retribuito, sicuro, protetto. Più che mai questa avvertenza è necessaria quando ci troviamo di fronte a un fenomeno paradossale come il lavoro povero.
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Secondo la definizione dell’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, la più utilizzata a livello internazionale, un individuo è considerato povero anche se lavora (in-work poor) se è stato occupato almeno per sette mesi durante l’anno e vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita (il 60% del reddito mediano nazionale). Si considera dunque sia l’individuo e le caratteristiche del suo lavoro, sia la struttura e la composizione occupazionale della sua famiglia, sia il livello economico medio del luogo in cui vive. Dunque, la bassa retribuzione è una delle possibili cause della povertà lavorativa, ma non è l’unica.
Può essere povero un lavoratore che riceve un salario in sé adeguato ma non sufficiente ai bisogni della famiglia in cui è l’unico a guadagnare; viceversa, un lavoratore con un salario molto basso può non trovarsi in condizione di povertà se vive in un nucleo famigliare con altri percettori di reddito. Si spiega così il fatto che se si guarda all’in-work-poverty come propone l’Eurostat, il fenomeno è più elevato tra gli uomini capofamiglia mentre se si guarda a quanti percepiscono bassi salari sono le donne a prevalere. La povertà lavorativa peraltro può essere dovuta anche al lavoro “insufficiente”, di chi vorrebbe lavorare di più ma non riesce perché il contesto lavorativo non lo consente (come i sottoccupati e part time involontari). In altre parole, il lavoro povero può essere determinato da cause diverse – individuali, famigliari, di contesto – che spesso si intrecciano. Secondo i dati Eurostat, nel 2021 l’in-work-poverty valeva in Italia l’11,6% (contro la media europea dell’8,9%); corrispondenti secondo Istat a quasi 2,6 milioni di persone povere pur lavorando. Un numero che, secondo altre stime, sarebbe ancora maggiore, sfiorando i 3 milioni.
Una risposta molteplice
Al di là delle stime, si comprende che per contrastare il lavoro povero serve agire su più fronti: salari minimi adeguati, trasferimenti economici che integrino il reddito da lavoro e sostengano nelle spese (per esempio per il costo dei figli), normative sul lavoro stringenti, promozione della stabilità occupazionale, investimento nello sviluppo di competenze e in imprese che assicurano la qualità del lavoro a tutti i livelli, non ultimo, misure per la conciliazione vita-lavoro che facilitino la partecipazione al mercato del lavoro e l’integrazione tra più redditi all’interno di uno stesso nucleo famigliare. Al di là delle stime, si comprende che non basta un lavoro purché sia per assicurare le persone dal rischio di povertà. Il lavoro è per ciascuno di noi una fondamentale fonte di sostentamento e insieme di realizzazione personale, di riconoscimento sociale.
Affinché questo si avveri, la qualità del lavoro, la giusta retribuzione e le tutele, la sostenibilità dell’impegno lavorativo lungo i corsi di vita delle persone e delle loro famiglie devono procedere insieme, per un lavoro “decente e dignitoso” sin dal primo ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Incertezza, precarietà, bassi salari, mancanza di tutele e di prospettive minano le scelte di vita, erodono i legami sociali, impoveriscono l’intera società.
È bene ricordarlo in questi giorni in cui si decide del radicale ripensamento delle misure di contrasto alla povertà. Quando si vuole mettere al centro il lavoro come leva di inclusione economica e sociale, di benessere individuale e della collettività, non basta la parola.
(*) Docente di Sociologia economica e del lavoro presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
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