Don Carraro: «Aiutiamo i Paesi a camminare con le proprie gambe»
di Gigliola
ALFARO
Agensir
Nel 2020, esattamente il 3 dicembre, Medici con l’Africa Cuamm compie 70 anni. Un anniversario che non vuole essere una celebrazione fine a se stessa ma spinta propulsiva per un impegno concreto e rinnovato, dall’Africa all’Italia. Per questo compleanno, il Cuamm, la più antica organizzazione non governativa italiana, organizza una serie di eventi fino al grande Meeting annuale del 7 novembre, che riunirà a Padova volontari e sostenitori da tutta Italia, insieme a istituzioni e testimoni speciali. Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, ripercorre con noi questa storia lunga 70 anni.
Don Dante, il Cuamm quest’anno festeggia un compleanno importante…
Innanzitutto, mi sembra bello sottolineare che siamo una delle associazioni di un territorio che ha prodotto tanto bene. Noi siamo stati degli antesignani e la nostra storia è caratterizzata da un’intuizione profetica di Francesco Canova, un giovane originario di Schio, un centro del nord vicentino, che si laurea in Medicina a Padova grazie a una borsa di studio della famiglia Marzotto, proprietaria della fabbrica Lanerossi presso la quale lavorava il papà Giovanni che muore, emigrato negli Stati Uniti, quando Francesco ha nove anni. Canova diventa medico nel 1933 e nel 1935 parte per la Giordania, dove resta dodici anni. Il suo lavoro presso l’ospedale di El-Kerak lo aiuta a capire l’importanza di formare le risorse umane dei Paesi poveri perché acquisiscano le competenze, le capacità, le professionalità che non hanno, in particolare nell’ambito della medicina. Tornato a Padova coinvolge il vescovo di allora, monsignor Girolamo Bortignon, e il 3 dicembre 1950 fonda il Cuamm, Collegio universitario di aspiranti e medici missionari. Quella di Canova è stata una scelta profetica anche nell’ambito di Chiesa: in quel tempo i missionari erano solo i sacerdoti o i religiosi, non c’erano laici. Questa è stata un’altra intuizione fortissima e innovativa perché solo il Concilio Vaticano II, con la Gaudium et spes, dice che tutta la Chiesa è missionaria, non solo i preti, ma anche i laici.
È cambiata la cooperazione in questi 70 anni?
Moltissimo. Negli anni Cinquanta si partiva con la nave e un viaggio poteva durare anche un mese, si andava in un ospedaletto su semplice richiesta di un vescovo locale e si stava in media una decina d’anni. Così è stato per i nostri primi vent’anni. Poi la stessa idea di cooperazione è maturata, c’è stata una legge nel 1971 e via via la cooperazione ha iniziato a lavorare per progettualità, tutto questo è cresciuto fino ai giorni nostri: oggi tutta la cooperazione si svolge all’interno di un quadro di riferimento che è quello nazionale. Noi, per esempio, facciamo riferimento al piano sanitario nazionale dei vari Paesi in cui operiamo. Per spostarsi si viaggia in aereo e ci sono obiettivi precisi da raggiungere.
Ci dà qualche numero del vostro impegno?
In tutti questi anni sono partiti oltre duemila operatori, tra medici, paramedici e tecnici, con un periodo medio in servizio di 3 anni per ciascuna persona inviata. Sono più di seimila anni di vita donati al Continente africano. Abbiamo scelto di concentrarci in tutti i Paesi più fragili dell’area sub-sahariana: Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Uganda, Tanzania, Mozambico, Angola e Sierra Leone. Attualmente stiamo sostenendo 23 ospedali, 3 scuole per infermieri professionali e ostetriche, una facoltà di Medicina in Mozambico. Abbiamo operativi sul campo 3mila persone, di cui 300 sono italiani. Gli altri sono africani o dello stesso Paese o di Paesi vicini: per esempio, in Uganda si sono formate molte ostetriche e parecchi medici, che adesso su nostra richiesta vanno in un Paese limitrofo, il Sud Sudan, che non ha personale sanitario. Il Sud Sudan, in media, ha un’unica ostetrica ogni 20mila mamme.
Quali sono le scommesse vinte e quali gli obiettivi ancora da centrare?
Quando il nostro contributo di lavoro riesce a portare risultati concreti è sicuramente una scommessa vinta. Facciamo l’esempio del Kenya, dove è andato il nostro primo medico partito per l’Africa nel 1955. In questo Paese siamo stati fino a una decina di anni fa: quando il Kenya è riuscito a migliorare i suoi livelli sanitari, di mortalità materna e infantile, di formazione del personale sanitario ed è stato in grado di camminare sulle proprie gambe, abbiamo deciso di fare un passo indietro. Anche in Uganda, in cui siamo andati nel 1958, le cose sono migliorate: all’inizio eravamo 60/70 medici italiani e poco personale locale, adesso è il contrario, gli italiani sono due e il resto è personale africano. Nelle zone povere come la Karamoja, vent’anni fa solo una mamma su 5 era assistita al momento del parto, adesso sono 4 su 5; i bambini malnutriti sono calati moltissimo, l’istruzione è aumentata, il Paese è più stabile. Non a caso, nel 2017 non c’è stato un ugandese che abbia attraversato il Mediterraneo. Questo significa che se si riuscisse a dare dignità a questi Paesi e ad aiutarli a crescere anche il fenomeno migratorio si attenuerebbe, perché la gente scappa da situazioni drammatiche. Invece una sfida ancora aperta sono i Paesi più poveri come il Sud Sudan dove la gente scappa verso l’Etiopia o l’Uganda. Il Papa ha a cuore tantissimo il Sud Sudan. Lì stiamo lavorando moltissimo, abbiamo 5 ospedali, 150 centri sanitari, molto personale, 70 volontari italiani, 1500 locali perché il Sud Sudan vive ancora una situazione drammatica ed è una sfida aperta.
Quali sono i punti di forza dell’Africa? E quali le debolezze?
La voglia potente dei giovani di crescere, di formarsi, di costruire il proprio futuro. Mi dicono: «Don Dante aiutaci a coltivare il diritto di restare, di non essere costretti a scappare con la famiglia». Perciò, abbiamo deciso di investire di più sulla formazione del personale locale e sulle potenzialità dei giovani africani. Le debolezze sono più sul versante del contesto, in parte geografico: ci sono poche infrastrutture e questo rallenta lo sviluppo del Paese, ma anche le strutture di Governo sono fragili. Ad esempio, la Repubblica Centrafricana, dove il Papa è stato e dove noi stiamo lavorando in collaborazione con l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, è un Paese che ha una struttura amministrativa statale debole per formazione, capacità, competenze, esperienze e sistemi di controllo. Dove c’è tanta debolezza e tanta povertà è più facile che la gestione dei fondi pubblici non sia limpida. Anche dal punto di vista sanitario è così, noi andiamo in un Paese e cerchiamo di rafforzare il sistema sanitario ma quando presenta grandi debolezze tentare di aiutarlo non è facile.
Come festeggerete questo compleanno?
Intanto, ringraziando il buon Dio perché la storia è un dono di bene che va preservato e possibilmente sviluppato. Con il cuore colmo di riconoscenza a Dio e a chi è venuto prima di noi, vogliamo continuare a essere al servizio dei più poveri. La sfida più grossa è proprio quella di concentrare il nostro intervento nelle aree più fragili, che chiamiamo “l’ultimo miglio del sistema sanitario”. Negli ultimi 10 anni, con il progetto “Prima le mamme e i bambini”, abbiamo focalizzato la nostra attenzione proprio su queste due categorie dando dignità al parto: purtroppo, in Africa tante donne muoiono ancora nel momento del parto, uno scandalo intollerabile. La nostra priorità resta questa, insieme con l’investimento sul capitale umano. L’Africa ha bisogno di tutto questo per avere sviluppo e futuro.