L’Alto Commissario Onu, che interviene alla Martini Lecture in Bicocca, puntualizza: «L'85% delle persone in fuga trova accoglienza nei Paesi limitrofi, la percentuale che arriva nel nostro continente è esigua» E l’Italia? «È stata lasciata sola nella gestione, ma oggi gli arrivi via mare, pressappoco azzerati, sono gestibili nel rispetto dei diritti e della dignità di ogni individuo»

di Francesco CHIAVARINI

Filippo Grandi
Filippo Grandi

Dal 2016 Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, a capo della principale agenzia umanitaria dell’Onu, che fornisce protezione e assistenza a 68.5 milioni di rifugiati, sfollati interni e apolidi, Filippo Grandi, milanese, 62 anni, parlerà di «Esodi forzati oggi: una questione di umanità» alla prima edizione della Martini Lecture Bicocca, in programma venerdì 22 marzo all’Università degli studi di Milano Bicocca. L’abbiamo intervistato.

Dal dopoguerra in poi, mai tante persone sono state costrette ad abbandonare il loro Paese a causa di conflitti. Tuttavia solo una piccola percentuale ha raggiunto l’Europa. Eppure il dibattito pubblico pare ossessionato dalla questione. Secondo lei esiste una crisi dei rifugiati in Europa o il problema è ingigantito dalla politica?
Le persone costrette ad abbandonare le proprie case in fuga da guerre, violenze e persecuzioni, oggi sono 68.5 milioni, 8 milioni in più dell’intera popolazione italiana. È un numero che deve allarmare, che evidenzia una crisi dei rifugiati a livello globale: 44 mila persone che scappano dalla violenza ogni giorno, ovvero una persona in fuga ogni due secondi, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Sud Sudan e da troppi altri teatri di guerra e violenza. Dopo il picco di un milione di persone giunte in Europa attraverso il Mediterraneo e il consistente flusso lungo la rotta balcanica nel 2015, oggi non è però corretto parlare di crisi di rifugiati in Europa. L’85% dei rifugiati nel mondo continua a trovare accoglienza nei Paesi limitrofi a quelli dai quali fuggono, Paesi a medio o basso reddito. La maggior parte dei rifugiati non può permettersi viaggi più lunghi e soprattutto non si allontana nella speranza di poter tornare a casa al più presto, non appena le condizioni di sicurezza lo consentono. Questo purtroppo non è spesso possibile e l’esilio si prolunga o trova altre strade, che portano più lontano. Ma la percentuale di rifugiati nei Paesi europei è esigua. La Svezia e Malta sono i Paesi europei con più rifugiati pro capite (rispettivamente 24 e 19 ogni mille abitanti), in Italia i rifugiati sono 3 ogni mille abitanti. Gli arrivi via mare sono stati pressappoco azzerati e di conseguenza sono gestibili nel pieno rispetto dei diritti e della dignità di ogni singolo individuo. L’ossessione che permea il dibattito pubblico non è giustificata, né utile, e risponde evidentemente solo a regole di convenienza politica.

Nelle gestione dei rifugiati l’Italia ha più volte lamentato di essere stata lasciata sola. Che ne dice?
È vero. A causa della loro posizione geografica di confine marittimo dell’Unione europea, Italia e Grecia sono state esposte a flussi importanti di arrivi via mare fino al 2016. Ancora oggi, in Grecia, arrivano più rifugiati che in Italia. Dopo il naufragio di Lampedusa del 2013 l’Italia ha dimostrato grande generosità e senso di responsabilità e umanità con l’operazione Mare Nostrum, ma non poteva continuare da sola. Gli instancabili sforzi della Guardia Costiera italiana, in coordinamento con Frontex, e delle Ong sono stati veramente notevoli. Insieme hanno salvato decine di migliaia di vite. Ma l’Europa ha dimostrato poca concretezza nella ricerca di politiche che garantissero una reale condivisione delle responsabilità nella gestione dei flussi di migranti e rifugiati. Gli Stati membri devono rendersi disponibili ad accogliere eventuali flussi di rifugiati e a istituire e rafforzare le istituzioni e le procedure di asilo necessarie. Come premessa necessaria per garantire una protezione vigorosa a livello globale vanno potenziati anche i canali legali, compresa la riunificazione familiare, affinché le persone non debbano ricorrere ai trafficanti e a viaggi pericolosi per mettersi in salvo.

Si dice che le politiche dell’asilo in Europa andrebbero cambiate: da una maggiore integrazione dei sistemi di accoglienza a una ridistribuzione dei richiedenti asilo più solidale tra gli Stati membri dell’Unione. Tuttavia al momento ogni tentativo di riforma si è scontrato con gli interessi nazionali. Che cosa realisticamente è possibile fare per migliorare la situazione?
L’Unione Europea è chiamata a dare una risposta più forte ed equa nei confronti delle persone costrette alla fuga. Può svolgere un ruolo guida nella protezione dei rifugiati in Europa e all’estero, anche sostenendo l’attuazione del Patto Globale sui rifugiati. Abbiamo bisogno che gli Stati membri si uniscano per tracciare una nuova strada da seguire, che sia funzionale per i rifugiati e per le comunità che li ospitano. Sostenendo i Paesi al di fuori dell’Europa, l’Unione può anche limitare i viaggi pericolosi e aiutare a trovare opportunità a lungo termine per i rifugiati. Allo stesso tempo è necessario garantire in Europa un sistema di asilo equo, efficace e ben gestito. In particolare, la riforma del Regolamento di Dublino dovrebbe includere un meccanismo di ricollocamento efficace a supporto di quegli Stati che ricevono un numero sproporzionato di domande di asilo. Sostenere il diritto di asilo negli Stati membri dell’Ue è assolutamente cruciale, così come è totalmente inaccettabile negare il salvataggio o trasferire la responsabilità dell’asilo altrove.

Negli anni le missioni europee che si sono succedute nel Mediterraneo hanno ristretto il loro raggio di azione. Le Ong, che hanno svolto spesso un ruolo di supplenza, sono state delegittimate e ostacolate. Paventa il pericolo di una crisi umanitaria nel Mediterraneo?
Riteniamo che gli Stati debbano intervenire con urgenza per ristabilire misure di soccorso efficaci nel Mediterraneo, aumentando le operazioni di soccorso coordinate e congiunte, ristabilendo procedure di sbarco rapide in porti sicuri, e revocando le misure che impediscono di operare alle imbarcazioni delle Ong. Prima che subissero crescenti restrizioni alle possibilità di effettuare operazioni di ricerca e soccorso, le Ong hanno salvato fino al 40% delle persone in difficoltà in mare. Il loro ruolo è stato e deve continuare a essere un vitale supporto all’azione degli Stati. Salvare vite in mare non costituisce una scelta, né rappresenta una questione politica: è un imperativo umanitario. Possiamo porre fine alle tragedie del mare solo trovando il coraggio e la capacità di vedere oltre la prossima imbarcazione, e adottando un approccio a lungo termine basato sulla cooperazione tra Paesi, che dia priorità alla vita e alla dignità di ogni essere umano. Dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 nel Mediterraneo sono morti almeno 20 mila uomini, donne e bambini. Nel 2018, lungo la rotta dalla Libia all’Europa, ha perso la vita una persona ogni 14 arrivate, un’impennata vertiginosa rispetto ai livelli del 2017. La crisi umanitaria è evidentemente già presente da anni.

I rifugiati sono solo una parte delle persone che migrano. I flussi migratori riguardano il nostro continente da decenni, tanto da essere considerati da molti un fenomeno strutturale. Secondo alcuni studiosi, nel prossimo futuro dovremo aspettarci un numero crescente di migranti dall’Africa in ragione del boom demografico che sta conoscendo quel continente, mentre la popolazione europea invecchia. Lei quale scenario intravede? Come dovrebbero gestirlo i governi? È un’ipotesi plausibile un piano Marshall per l’Africa, che anche papa Francesco ha sollecitato?
I flussi misti, in cui rifugiati e migranti percorrono le stesse rotte pericolose, in preda a trafficanti senza scrupoli, stanno dando origine a situazioni complesse. Migliaia di rifugiati e migranti continuano a viaggiare dall’Africa attraverso la Libia e il Mediterraneo, spinti dalla disperazione ed esposti a crudeltà e pericoli inimmaginabili. La Libia è essa stessa teatro di un conflitto. Ma le preoccupazioni internazionali si sono concentrate sulla riduzione degli arrivi in Europa. La necessità di un obiettivo comune è più acuta che mai. Negli ultimi 12 mesi sono emerse nuove crisi, portando il numero di persone in fuga a livello globale a 68,5 milioni, inclusi oltre 25 milioni di rifugiati. Le soluzioni politiche sono rimaste largamente assenti. L’intersezione di conflitti e violenza con altri fattori come il cambiamento climatico, la povertà e la disuguaglianza ha generato flussi di popolazione più intensi e di natura complessa, che sono più difficili da affrontare. I Paesi limitrofi hanno faticato ad assorbire l’impatto dei nuovi arrivati sui loro servizi, infrastrutture, mercati del lavoro e ambiente. Con l’adozione della Dichiarazione di New York sui rifugiati e i migranti nel settembre 2016, gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno assunto una serie di impegni per migliorare il modo in cui la comunità internazionale affronta le questioni relative alla mobilità umana. Gli Stati membri hanno convenuto di continuare a migliorare le risposte internazionali lavorando all’adozione del Patto Globale sui rifugiati. Il Patto Globale rappresenta un’opportunità unica per rafforzare la risposta internazionale ai movimenti di massa di rifugiati e alle situazioni di esilio protratto. Tuttavia il suo successo dipenderà dalla disponibilità della comunità internazionale a sostenere la sua attuazione. Il Patto Globale contiene gli elementi fondamentali per poter progredire verso una condivisione più equa e prevedibile degli oneri e delle responsabilità.

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