L’esperto di Storia continentale mette in guardia dai rapporti con Mosca: «L’Ue deve decidere cosa vuole fare da grande sul piano della comune politica estera e della difesa comune»
di Gianni
Borsa
Agensir
Mentre prosegue la tragica guerra innescata da Vladimir Putin e dalla Russia sul suolo ucraino, con vittime, profughi e distruzioni, il dibattito in Europa si amplia ai temi energetici, economici, militari. Al contempo si apre un confronto sui rapporti tra Ue e Mosca. Affrontiamo alcuni di questi aspetti con Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Milano, esperto di politiche comunitarie e autore di diversi saggi sulla politica internazionale.
Professore, partiamo dall’energia. Come si è arrivati alla dipendenza dal gas russo?
L’uso del gas naturale per illuminazione risale alla fine dell’Ottocento, ma sicuramente la transizione decisa verso un più ampio utilizzo del gas naturale è legato alle crisi petrolifere del 1973 e del 1979. In particolare la prima, connessa alla guerra dello Yom Kippur tra Egitto, Siria e Israele, ha determinato cambiamenti epocali nel sistema produttivo e negli stili di vita dell’Occidente: decisa sostituzione degli impianti di riscaldamento domestici a gasolio con quelli a gas ad esempio; l’attenzione al problema del consumo di carburante nei motori a scoppio degli autoveicoli fu un altro effetto. Fino al 1974-76 il problema del consumo di carburante per le auto non era affatto un elemento decisivo nel determinare l’acquisto; poi lo diventa, eccome. In questa transizione il ruolo della Russia, detentrice delle più grandi riserve di gas naturale al mondo, è stato ovviamente determinante. Per sfuggire al “ricatto” dei Paesi produttori di petrolio, in gran parte localizzati in Medio Oriente, area politicamente sensibile e instabile, ci si è principalmente affidati all’Urss, che ne ha ricavato vitali entrate di valuta pregiata. Nello stesso tempo, è cresciuta l’interdipendenza economico-finanziaria tra l’Urss/Russia e l’Europa occidentale, in particolare con Germania, Francia e Italia. Con la dissoluzione dell’Urss all’inizio degli anni Novanta, e il cambio nella dirigenza politica della Russia, era inevitabile che la relazione di dipendenza diventasse anche un fattore variabile e instabile. La guerra fredda era un potente immobilizzatore delle dinamiche politiche europee, la fine della guerra fredda ha rappresentato una fluidificazione delle relazioni, soprattutto in campo energetico.
Del resto le disponibilità e le forniture energetiche sono un elemento essenziale, tante volte contraddittorio, della geopolitica. Non è vero?
Sì, contraddittorio e particolarmente determinante dello stato delle relazioni tra Stati. Senza energia non si produce nulla, quindi si tratta di un fattore ancora più importante della disponibilità delle materie prime per la trasformazione e la produzione industriale. Uno Stato che sia, come si dice tecnicamente, paymaster nelle relazioni energetiche, cioè in grado di controllare il gioco e il processo di approvvigionamento, ha un asset incredibilmente importante e determinante. Allo stesso tempo, diventa problema strategico vitale raggiungere una certa quota di indipendenza energetica, usando al meglio la tecnologia e le innovazioni che hanno reso le energie rinnovabili non più un vezzo da cultori dell’ecologismo new-age, bensì una priorità per ogni sistema industriale evoluto. Non possiamo pensare di continuare a basare i nostri modelli di sviluppo sul consumo di combustibili fossili (e il gas è tra questi) mettendo a rischio l’esistenza del pianeta. Vedo la crisi attuale non tanto come una perdita dell’Occidente bensì come un’occasione per modificare stili di vita e di produzione, proprio come successe cinquanta anni fa con la crisi del 1973. Allora capimmo qualcosa, ma non tutto. Oggi non abbiamo più scuse. Il green deal europeo, che l’Ue ha posto come una delle priorità per gli anni futuri dell’Unione, è una sfida che si gioca sull’esistenza stessa dell’ecosistema e richiama le responsabilità di decisori che oggi non hanno più alibi possibili.
Sono molte le voci che sollevano dubbi sui rapporti economici e politici con Mosca. Da quando la Russia è diventata un problema?
La Russia è sempre stata un problema per i Paesi europei, per il potente miscuglio di eccezionalismo, messianismo politico, volontà di potenza e di controllo che caratterizza la sua storia, dal tempo degli zar. Noi oggi vediamo Putin, la sua aggressività, la sua volontà di dominio e di controllo degli Stati confinanti, ma non dobbiamo dimenticare che certe costanti della politica estera russa sono sempre presenti, sin dai tempi di Pietro il Grande o di Caterina di Russia. Il controllo dell’area baltica, per esempio; la tensione per la “riunificazione” e l’influenza sulle popolazioni slave confinanti a ovest (Ucraina, Bielorussia, Moldavia), per arrivare fino ai Balcani, con la storica tutela protettiva nei confronti della Serbia, è un altro elemento sempre presente. Stalin nel 1939-45 compì un capolavoro politico giocando sul tavolo di Hitler e su quello delle potenze occidentali: recuperò praticamente tutto il territorio perso nel 1917 con la pace di Brest-Litovsk voluta da Lenin per una pace “senza indennità e senza annessioni”: recuperò l’influenza sulla Finlandia, trasformata al tavolo della pace del 1945 da Stato aggredito da Stalin nel 1939 in Stato simpatizzante della Germania nazista; spostò fisicamente la Polonia di più di 200 km verso ovest, rioccupando i territorio della Russia Bianca (oggi territorio sui quali insiste la Bielorussia); si garantì il controllo della Bessarabia al confine con la Romania. I lunghi anni dell’impero sovietico resero dato acquisito i successi geopolitici dello stalinismo.
E poi?
Dal 1991 tutto è ridiventato fluido. Nel 1997 Nato e Russia concordarono un piano di nuove adesioni alla Nato che vedevano molti Paesi dell’ex blocco sovietico aderire all’alleanza occidentale in funzione di protezione e garanzia. Sono gli anni del Founding Act tra Russia e Nato, un accordo per le relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza firmato a Parigi nel maggio 1997 che impegnava le parti a non considerarsi “nemiche”. Poi nel 1999 arrivò Putin – più di venti anni fa – e cominciò una stagione lunga di revisionismo costante.
In Vladimir Putin – con il suo entourage di gerarchi e oligarchi – si riscontrano, come lei afferma, tendenze revisioniste, miste a nazionalismo e progetti di nuova e minacciosa “grande Russia”. Quali i caratteri del potere di Putin? La Russia di oggi è un pericolo anche per l’Europa?
Lo è, sinceramente lo è. Churchill usava dire che la Russia è un indovinello avvolto in un mistero dentro un enigma, e si riferiva alla Russia di Stalin; difficile però non ritenere la frase valida anche oggi per la Russia di Putin. Si tratta di un leader imprevedibile, con molte caratteristiche paranoiche e manie di controllo e sicurezza che erano anche di Stalin, ma soprattutto è un leader concentrato sul recupero di potenza politica e influenza nell’area a ovest dei confini russi. Ogni processo di ridefinizione delle sfere di influenza implica conflitti e tensioni. Quando succede in mezzo a una guerra, come successe a Yalta nel 1945, si tratta di un processo già inserito in un contesto conflittuale; quando invece questa ridefinizione avviene in tempi di assenza di conflitti, lo si può fare o diplomaticamente oppure con guerre “a bassa intensità”, conflitti limitati e circoscritti che servono per ristabilire gerarchie e ruoli (e rango) delle potenze coinvolte. La differenza tra guerra a bassa intensità e guerre convenzionali a largo raggio è solo accademica: si muore e si soffre in entrambe le situazioni. Oggi l’Europa occidentale si ritrova a dover gestire la cerniera con la Russia in una situazione di aperta conflittualità militare e anche sul piano dei valori: Putin e la sua propaganda – dopo aver falsamente incolpato la Nato, un’alleanza internazionale non un singolo soggetto politico, per una “espansione” che la Russia peraltro conosceva e aveva accettato come elemento fisiologico per la sicurezza dei Paesi che uscivano da quasi cinquant’anni di dominio sovietico – oggi parlano di Occidente decadente, rammollito, ostaggio degli americani, senza nerbo e senza carattere. Nel far questo Putin trova una oscena alleanza nel capo della Chiesa ortodossa, in una sorta di cesaropapismo d’accatto, e pare avere un programma ben chiaro: ridisegnare le aree di influenza e di controllo della nuova Grande Russia. Questo non può non confliggere con l’esistenza di un soggetto politico ed economico-commerciale come l’Unione europea, che guardava a una partnership effettiva ed efficace con la Russia, ma che non può invece assolutamente gestire un conflitto con eventuali manifestazioni anche militari. Si è aperta una stagione lunga per l’Unione, quella della sua trasformazione e dell’assunzione di responsabilità geopolitiche che al momento non può prendere, se non affidandosi ai suoi membri più importanti, anche militarmente: Francia, Germania, Italia e Spagna. Si tratta di una tragedia per l’evoluzione pacifica dell’Unione verso una integrazione politica.
In che senso?
Ogni approfondimento dell’integrazione è, beninteso, figlio di una crisi nella storia dell’integrazione, ma certo non crisi che coinvolgono un conflitto armato con una superpotenza nucleare. Si tratta di mantenere il sangue freddissimo, gelato come la steppa russa, e cercare di smontare le provocazioni russe, la propaganda sistematica, la disinformacjia (nella quale i russi hanno una grande esperienza dai tempi della Nkvd) per cercare di svuotare l’aggressività di Putin. Le provocazioni verbali e i battibecchi da terza guerra fredda (la seconda fu quella di Reagan) lasciano davvero il tempo che trovano. È tempo inoltre che l’Ue, come durante la pandemia, decida cosa vuole fare da grande sul piano della comune politica estera e della difesa comune. A quasi settant’anni di età sarebbe anche l’ora.