Le letture bibliche proclamate alle sue esequie hanno sintetizzato perfettamente una testimonianza fatta di ansia per la giustizia, di tensione interiore e di assunzione di responsabilità nella vita pubblica
di Franco
MONACO
Giovanni Bianchi ci ha lasciato. Sconfitto da un male incurabile e fulminante. Egli è stato tante cose insieme. Ma per me è stato soprattutto un fraterno amico, con il quale ho condiviso ideali e battaglie. Posso esprimermi come mi detta il cuore, sperando di non essere frainteso? Quasi volessi ridurne anziché accrescerne la statura? Giovanni è stato prima di tutto un uomo buono e un vero cristiano. Come pochi se ne incrociano nella vita pubblica e politica. Scusate se è poco.
Non so se sia stata l’amatissima moglie Silvia a scegliere le due letture bibliche proclamate alle sue esequie, ma certo in quella scelta si rinviene un «intelletto d’amore». Intanto il Vangelo delle Beatitudini nella versione di Matteo. Forse la pagina evangelica più suggestiva, quella che meglio esprime la Buona Notizia. L’abbiamo letta infinite volte. Ma raramente è risuonata in me tanto pertinente. Due sole beatitudini: beati i puri di cuore, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia. Una buona sintesi della vita e della testimonianza di Giovanni. Davvero un puro di cuore, una persona trasparente, senza ombre, cui non si poteva non volere bene. Qualche volta mi è occorso di rimproverarglielo, di imputargli una certa refrattarietà alla logica del conflitto politico. Eppure la sua attività pubblica – sociale e politica – può essere per intero iscritta sotto la cifra appunto della lotta per la giustizia. Attraverso una dedicazione ai problemi del lavoro, ai diritti sociali, a un nuovo ordine mondiale ispirato a valori di giustizia e di pace.
Giovanni ha rappresentato al meglio quel cattolicesimo sociale oggi orfano di una qualche rappresentanza politica (ecco una signora questione che meriterebbe di essere tematizzata; un modo non rituale per raccogliere la lezione di Giovanni!). Con il suo culto per l’autonomia delle formazioni sociali, che tuttavia non rifugge la mediazione politica e istituzionale. Dossetti è stato uno dei suoi riferimenti politico-culturali. Con la sua ansia di giustizia per nulla subalterna o inferiore a quella coltivata dalle forze di sinistra. Ma anche con la sua tensione interiore e con la sua apertura alla trascendenza.
Di nuovo è risuonata, nelle esequie, tratta dal libro dell’Esodo, la ricerca del volto di Dio da parte di Mosè. A significare la radice contemplativa di un uomo di riflessione e di azione come Giovanni. Che ebbe un intenso rapporto con il teologo domenicano Chenu, attore-protagonista nel Concilio, con la sua teologia del laicato e delle realtà terrene. Non meno significativa la sua sensibilità per un nuovo ordine mondiale e, segnatamente, il suo impegno politico-parlamentare per l’Africa, continente dimenticato.
Da presidente delle Acli agì su due fronti: quello di una riconciliazione (senza capitolazione) con la Chiesa italiana, dopo una lunga stagione di reciproche incomprensioni, e quello di una nuova e originale attenzione al confronto politico e, in ispecie, all’incipiente dibattito sulle riforme elettorali e istituzionali mirate a una democrazia competitiva e governante. Si pensi all’aperto sostegno delle Acli di Bianchi ai referendum elettorali di inizio anni Novanta.
Giovanni è stato un attivissimo animatore sociale e culturale. Uomo di vaste letture, egli tuttavia concepì sempre la cultura non come erudizione riservata all’élite, ma come servizio diffusivo teso alla crescita culturale della comunità intera, a cominciare dagli strati popolari. Non si risparmiava, non diceva mai di no a chi gli domandava un intervento in giro per l’Italia. Non casualmente il malore che ha segnato l’incipit del suo ultimo tratto di strada lo ha colto mentre rendeva un servizio alle sue Acli milanesi riunite a convegno in Toscana.
Aveva altresì una spiccata dimensione creativa e persino poetica di cui ha lasciato traccia.
Fu presidente del Partito popolare fondato da Martinazzoli ed ebbe una parte di rilievo nel passaggio drammatico della sua lacerante divisione originata dallo strappo di Buttiglione. Con Andreatta e Mattarella si portò a Bologna dal professor Romano Prodi per proporgli di mettersi alla testa di una impresa politica tesa a organizzare il campo del centrosinistra che poi prese il nome e la forma dell’Ulivo.
Dunque un uomo buono, ma che seppe assumersi intere le sue responsabilità nella vita pubblica; un cristiano, ma umilmente fiero della sua laicità; una figura eminente dell’associazionismo sociale cristiano, sempre tuttavia impegnato a una sua positiva interlocuzione con le istituzioni civili e religiose. Infine, un marito e un padre esemplare, cui non è stata risparmiato il dramma della morte di una figlia nel fiore degli anni, ma che non si è arreso e ha continuato a servire generosamente la città dell’uomo.