In occasione della festa di San Francesco di Sales, all’Istituto dei ciechi il tradizionale incontro dell’Arcivescovo con i giornalisti. Parla Fausto Colombo, che sarà tra i relatori
di Pino
NARDI
Oggi più di prima i media cattolici hanno un ruolo decisivo per il pluralismo dell’informazione e la professione giornalistica «va difesa con le unghie e con i denti». Lo sostiene Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università cattolica di Milano, tra gli invitati al tradizionale incontro dell’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini, con i giornalisti che si terrà sabato 26 gennaio in occasione della festa di San Francesco di Sales.
Da tempo in Italia si assiste ad attacchi virulenti contro la libertà di informazione, con liste di giornalisti «nemici», promossi da politica e istituzioni. È a rischio questa fondamentale libertà o è una dialettica fisiologica?
Per una serie di fatti nuovi ho l’impressione che ci sia una concentrazione egemonica di elementi, raramente riscontrati nella storia della democrazia italiana del dopoguerra. Ne individuo tre. Il primo consiste nel fatto normale – realizzato in modo più o meno virulento – che l’attuale maggioranza di governo plasma il servizio pubblico. È abbastanza evidente per chi segue i telegiornali, c’è già stato anche un richiamo della competente autorità. Il secondo: le proprietà di alcuni gruppi, come il rilevante gruppo Cairo, con un peso sul mercato dell’informazione che incide con una certa attenzione alle forze di governo. Il terzo è legato allo sviluppo dei social media, che sulle piattaforme tendono a enfatizzare alcune opinioni su altre: di solito nello stile sono più prossime ai discorsi sovranisti e populisti. Questo combinato disposto genera un peso dell’informazione orientata in un certo modo. Per quanto riguarda i giornalisti non c’è dubbio che, insieme all’élite, siano individuati come capri espiatori di ogni malfunzionamento dell’informazione.
Allora quale spazio può avere il giornalismo di qualità in una stagione che vede la disintermediazione e quindi il successo dei social?
L’informazione è intermediata in modo diverso da prima. Le piattaforme intermediano, attraverso l’autocircolazione premiante, il fatto che spesso questi account più o meno veri si sponsorizzano fra di loro, creando traffico e moltiplicandolo. Sono diverse da quello tradizionale del giornalismo, ma sono certamente forme di intermediazione, perché altrimenti sembra che tutto quello che il cittadino dice arriva agli altri cittadini, ma sappiamo bene che non è così, è molto più complicato.
E il dilagare delle fake news, soprattutto in certi settori di lettori?
Il meccanismo delle fake news si chiude con la loro accettazione, attraverso il cosiddetto buzz che continua a rilanciarle. Alla fine, siccome una smentita è una notizia data due volte, crea un’opinione spesso distorta sulle vicende. E chi accetta più facilmente le fake news? Quei soggetti che sono meno abituati alla qualità dell’informazione e siccome in Italia non abbiamo una tradizione di lettori di giornali o di competenti dell’informazione, siamo particolarmente esposti. Prova ne sia che Eurobarometro continua a dirci che siamo quelli più convinti di sapere come stanno le cose, ma in realtà risultiamo i meno informati. È un fenomeno mondiale, ma che in Italia ha una sua dimensione assolutamente particolare.
I media cattolici, anche quelli diocesani, possono giocare ancora un ruolo significativo nell’ambito della comunicazione?
Direi più di prima. I media cattolici hanno alcuni tratti. Il primo è essere radicati sul territorio, al di là della località o meno dei media; sono ancora tradizionali, nel senso che attingono a forme di condivisione, si rivolgono a una comunità come i media alternativi. I media cattolici sono dunque a metà, fra quelli alternativi e istituzionali. Qui vorrei sottolineare la dimensione di media alternativi alle logiche tradizionali di mercato, ma anche all’egemonia simbolica dominante. Sono media che si rivolgono a un pubblico avvertito e hanno una certa rilevanza. Secondo tratto: essendo media alternativi, per definizione sono una difesa del pluralismo, perché sono portatori di un punto di vista che non si piega alle logiche del mondo. Quindi hanno il mandato di una visione altra, diversa, anche questo è molto importante. Ciò vale anche per i social media che rimandano alle istituzioni. Non è un caso che l’account twitter di papa Francesco sia bersagliato dagli haters (odiatori), proprio nella sua alternatività a un certo pensiero pseudo-dominante che egemonizza i media e i territori visibili dell’informazione, ma poi non è detto che tutti ci credano.
Il futuro dei giornalisti. I giovani che vogliono fare questa professione sono una ventata di aria fresca in un clima di conformismo, oppure sarà una generazione destinata alla precarietà e all’irrilevanza?
Terrei distinti i due aspetti. Primo, le motivazioni dei giovani che fanno i giornalisti. Non è un mestiere facile, di moda. Oggi chi vuole davvero farlo deve avere motivazioni forti, lo fa con un afflato anche morale, forse superiore a prima per il clima sociale che c’è. Secondo, il precariato: da una decina di anni c’è una spinta a ridimensionare la figura del giornalista professionista, che invece va difesa con le unghie e con i denti, perché è quello che svolge quell’essenziale compito di avvicinamento alla realtà, sia pure in modo mediato, di cui c’è sempre più bisogno. Il processo di mediatizzazione, l’intermediazione dei media in qualunque attività della nostra vita (dal guidare la macchina, a guardare un film, da fruire di un museo, a progettare un viaggio, a scegliere un ristorante), con i suoi automatismi comporta una necessità crescente di professioni molto radicate che fanno le pulci, che svolgono quella fondamentale funzione di interrogazione della realtà, che è il mestiere del giornalista. Ce n’è bisogno di più in un momento in cui il mercato tende a farne a meno.