Gaia Taffoni, ricercatrice dell'Ispi tra i relatori della summer school del Coe a Barzio, sottolinea come problemi regionali o interessi contingenti continuino a frenare l’affermazione di una linea politica comune e condivisa
di Claudio
URBANO
Più che un’Europa a due velocità, è un’Europa a due facce quella che descrive Gaia Taffoni, ricercatrice dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), che sabato 1 luglio interverrà al dibattito su «L’Europa 60 anni dopo, alla ricerca di un’identità: uno sguardo da Sud», nell’ambito della summer school del Coe a Barzio.
È in effetti verso Sud, ovvero verso la sponda meridionale del Mediterraneo, che l’Europa deve guardare per la sua politica estera, avverte Taffoni, rilevando però come non abbia ancora trovato una propria linea: «In alcuni documenti, approvati dopo le Primavere arabe, l’Unione europea si pone in modo evidente l’obiettivo di promuovere la governance dei Paesi del Nord Africa, non solo sul lato economico, ma anche con riforme costituzionali che potessero portare gli Stati sulla strada della democrazia e della stabilità istituzionale. A livello di singoli Stati europei, però, questa volontà manca, e gli interessi diventano quelli economici e di sicurezza». Un’Europa dei Trattati e una degli Stati nazionali, dunque, col risultato di un’identità, o più semplicemente di una linea politica, che non riusciamo a identificare.
Problemi evidenti nel modo in cui è stata gestita la crisi migratoria, osserva Taffoni: «Gli interessi di alcuni paesi membri stanno ostacolando non solo una politica di azione esterna, ma soprattutto una politica interna sulla questione dei rifugiati», con la loro mancata redistribuzione tra i Paesi membri. Col paradosso che «proprio i Paesi dell’est Europeo, che hanno beneficiato nell’ultimo decennio della membership dell’Unione, fanno ora pressione contro una politica di gestione comune del fenomeno migratorio».
Uno scenario non semplice, dove è auspicabile che l’Italia riesca a condurre i temi dell’agenda europea. Ma perché ciò avvenga, chiarisce Taffoni, «è necessaria una vera integrazione della politica estera europea, anche attraverso il modello, riproposto dal presidente della Commissione europea Juncker negli scorsi mesi, di un’Europa a più velocità, che riunisca innanzitutto chi è disposto a trasferire a livello sovranazionale la gestione della politica estera. Se invece questa resterà una politica intergovernativa, i veti degli Stati membri continueranno a bloccare la parte comunitaria e a rendere inefficiente l’azione esterna dell’Unione».
Ancora una volta dunque siamo di fronte ad una consapevolezza che probabilmente è lontana dall’essere tradotta nei fatti e, appunto, nei Trattati. Per l’Europa il problema sembra dunque davvero essere la continua tensione, che del resto ha caratterizzato tutti i sessant’anni della sua storia, tra l’aspirazione a un’integrazione sempre maggiore, sostenuta dalla proposta di forti valori ideali, e la cura dei problemi o degli interessi contingenti. Un tema che si è riproposto, per esempio, nell’accordo con la Turchia nel marzo del 2016 che prevedeva incentivi economici (con finanziamenti per 3 miliardi di euro) in cambio del blocco dei flussi migratori sulla rotta balcanica. «Un’occasione in cui l’Europa si è mossa con una voce sola, ma che va contro quell’identità dell’Europa che dovrebbe essere un attore di democratizzazione», osserva Taffoni.
Guardando invece all’interno dell’Unione, Taffoni indica tra i tratti “mediterranei” e di successo dell’azione europea quello delle politiche regionali, caratterizzate dall’obiettivo di consolidare la coesione economica e sociale dell’Unione europea premiando nelle possibilità di investimento le regioni meno sviluppate. Come dire che è sempre il criterio della coesione quello che deve guidare l’Unione Europea.