La ricorrenza della Dichiarazione Schuman (9 maggio), con una guerra in corso e un’economia stagnante, cade in un momento poco felice. Ma è proprio in questi frangenti che l’ideale aiuta a ripartire. Una riflessione che prende spunto dall’ultimo libro di Marco Buti

Robert Schuman
Robert Schuman

di Martino LIVA e Matteo SCOTTO

«Jean Monnet aveva ragione?». Così s’interroga, nel suo ultimo libro, Marco Buti, funzionario europeo di lungo corso e già capo Gabinetto del Commissario Gentiloni.

Economista e politico impegnato nella ricostruzione della Francia nel secondo dopoguerra, Monnet credeva che in Europa la sistematica condivisone di risorse – si iniziò con il carbone e l’acciaio – avrebbe incentivato un’integrazione tra Stati nazionali sempre più organica, fino alla creazione di una federazione su scala continentale. Ritiratosi dalla vita pubblica, congedava gli amici in visita a Houjarray con un monito: «Continuate, continuate, non c’è per i popoli d’Europa altro avvenire che l’Unione». Scomparso nel 1979, Monnet poté apprezzare gli esiti del suo metodo di cooperazione, venendo ricordato tra i padri fondatori dell’Ue.

Il 9 maggio è la Giornata dell’Europa, anniversario della celebre dichiarazione del 1950 pronunciata a Parigi da Robert Schuman, guarda a caso, allievo di Monnet. La Dichiarazione Schuman, in una fortunata combinazione di realismo e visione politica, pose le basi programmatiche per la nascita della prima comunità europea. Invitava a una solidarietà di fatto tra i Paesi europei, da conquistare giorno per giorno partendo dai bisogni concreti.

Speranza delusa?

Più di settant’anni sono trascorsi e verrebbe da chiedersi quale significato hanno oggi quei richiami colmi di speranza. Il ritorno della guerra ai confini europei è un fatto. L’economia è stagnante, l’ascensore sociale viaggia più veloce da altre parti del globo, la crisi demografica attanaglia il Vecchio continente, mentre le frontiere meridionali dell’Ue (paradosso!) si chiudono sempre più, con il Mediterraneo divenuto un cimitero di disperati. La narrazione positiva di un’Europa unita che ha accompagnato, forte di numerosi successi, più di sessant’anni d’integrazione, pare oggi inafferrabile, specie agli occhi delle nuove generazioni. Se la pace è finita, e la prosperità svanita – si domandano gli adolescenti nati nel nuovo secolo – che cosa rimane da festeggiare?

Uno sforzo di creatività

A un quesito così posto segue un’unica e scontata risposta: nulla. Il Vecchio continente vive una fase storica scandita da crisi sistemiche che paiono frapporsi una all’altra senza sosta, e causa delle quali l’orizzonte futuro resta imperscrutabile. Eppure, è in questo nulla che riposa la risposta alla nostra domanda, insieme al senso dell’Europa e della giornata che celebriamo. La vitalità dei popoli europei risiede esattamente nella capacità di ricostituirsi da momenti di crisi, non intesa come difficoltà, ma nel suo significato originario di discernimento. È nei momenti più oscuri della storia che l’Europa ha dimostrato, nella consapevolezza del tempo, delle culture e delle tradizioni che l’hanno forgiata, di saper ricorrere a quegli sforzi creativi, per restare a Schuman, indispensabili alla costruzione di tempi nuovi.

Dunque, ancora una volta l’Europa è chiamata a scegliere. Scegliere la pace, il dialogo tra i popoli, il diritto – e, con esso, governance pubbliche e private trasparenti – e i diritti della persona umana, la lotta alle diseguaglianze, la sostenibilità ambientale, l’integrazione sociale. Questo è ciò che resta irrinunciabile per l’Europa, ciò che più ci rappresenta, di cui oggi il mondo pare aver bisogno più che mai. Allora sì, rispondendo a Marco Buti, Jean Monnet aveva senz’altro ragione.

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