Il Ddl «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita» prevede l’obiezione di coscienza. La bioeticista Maria Teresa Iannone: «La coscienza si ribella non in base a una semplice valutazione soggettiva, ma in ordine a un sistema di valori posto alla base dell’ordinamento giuridico»

di Giovanna Pasqualin Traversa
Agensir

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«Sul piano prettamente etico, l’obiezione di coscienza costituisce la formalizzazione di un primato della coscienza sulla legge che lo stesso legislatore riconosce possa non interpretare il bene comune. Ma, proprio per questo, oltre a essere un’indubbia conquista di civiltà, tolleranza e democrazia, essa rischia di apparire come una intrinseca debolezza della legge che riconosce, nella sua stessa ratio, di non interpretare in pieno il bene di tutti i cittadini prevedendo, al suo interno una legittima disobbedienza». Esordisce così Maria Teresa Iannone, responsabile Bioetica e privacy dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e membro del Consiglio direttivo del Gibce (Gruppo interdisciplinare di bioetica clinica e consulenza etica in ambito sanitario) dell’Università Cattolica, nei giorni scorsi promotore di un incontro presso la Cattolica, per approfondire il tema della consulenza etica in riferimento alle questioni di fine vita. Un’opportunità per tornare a parlare del disegno di legge «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita», approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati lo scorso 10 marzo e passato all’esame del Senato.

Un diritto soggettivo della persona

«L’obiezione attua il principio della libertà di coscienza, e garantisce una libertà di opinione coerente con le azioni, laddove gli obblighi della legge incidono su radicate e profonde convinzioni della persona», spiega l’esperta. Obiettore, quindi, è chi «attraverso l’esercizio dell’obiezione di coscienza, vuole promuovere un valore o un principio». Riferita generalmente a servizio militare; sperimentazione animale; interruzione volontaria di gravidanza; pratiche di riproduzione assistita; interventi sospensivi di terapie vitali, l’obiezione di coscienza è dunque «un diritto soggettivo della persona», che non può «essere costretta ad agire contro la propria coscienza». Di conseguenza, è riconosciuta dalla legge.

Tuttavia, precisa la bioeticista, la coscienza «non è il luogo dell’opinabile», ma «il luogo dove si ha la percezione di un valore oggettivo e universale. Non è corretto, perciò, pensare all’obiezione di coscienza solo in una dimensione individuale». Uno Stato che «prevedesse per ogni legge» una norma che, «in nome della libertà di coscienza, permettesse di disattendere quello che la norma giuridica impone, rischierebbe la vanificazione del proprio ruolo e l’annullamento dell’ordinamento giuridico». Invece, «proprio perché i temi cui si fa riferimento» sono inseriti «nella dimensione pubblica delle scelte politiche, non è possibile affidarsi solo alla dimensione soggettiva della coscienza per giustificare la mancanza di rispetto della legge», ma «è necessario dare un fondamento oggettivo alla obiezione di coscienza e questo fondamento consiste nel fatto che la coscienza si ribella non in base a una semplice valutazione soggettiva, ma in ordine a un sistema di valori posto alla base dell’ordinamento giuridico. La coscienza del singolo viene cioè interpellata su un valore che tocca il fondamento della convivenza civile, come può essere il valore della vita». La disobbedienza è allora «giustificata».

La clausola di coscienza

In senso più ampio, avverte tuttavia Iannone, occorre «individuare un’altra forma di obiezione che, forse, sarebbe più opportuno chiamare clausola di coscienza e che fa riferimento a tutte quelle situazioni che, soprattutto in ambito sanitario, legittimano sul piano strettamente etico (pur non essendo formalmente previste da una norma giuridica) il rifiuto di un certo comportamento per ragioni di coscienza»; legittimazione che trova fondamento «anche in Carte e Dichiarazioni universali». In virtù di essa, il professionista «ha il diritto-dovere di non prender parte a pratiche che contrastino con le sue convinzioni di coscienza, come prevede il Codice di deontologia medica italiano e come prevedono anche i Codici deontologici di molti altri Paesi». Se il valore in gioco è la vita umana, «la riflessione non è più soltanto etica, ma diventa ontologicamente e strutturalmente giuridica».

Per Iannone il diritto di astenersi dalla legge, però, non basta: è anzitutto necessario capire «di quale Medicina stiamo parlando. Il paziente deve essere aiutato a capire e questo implica molto impegno e disponibilità ad ascoltare, a mettersi in gioco; serve un’alleanza culturale con il paziente che vada oltre l’”alleanza terapeutica” per evitare di banalizzare gli aspetti fondamentali della vita che pare diventare non un valore in sé, ma soltanto se corredata da aggettivi connotanti una sua utilità e efficienza».

Di qui l’importanza dell’affermazione di coscienza «per chi ha come obiettivi la stabilità e la sicurezza delle proprie scelte». Secondo l’esperta, «lo strumento dell’affermazione di coscienza può essere utile alle istituzioni sanitarie, sia ad affrontare le lacune che la legge pone ancora nell’obiezione di coscienza istituzionale, sia nel formare i propri operatori verso linguaggi morali condivisi e coerenti». Ma può essere utile anche per tradurre le proprie decisioni «in percorsi organizzativi e gestionali». Rispetto a spinte che «sembrano voler portare a derive utilitaristiche o lontane dalla visione sacrale della vita, è necessario – conclude Iannone – far scaturire progetti che, rendendo viva l’analisi dei valori su cui si fondano le azioni, sappiano coniugare la ricchezza delle convinzioni con la complessità della realtà».

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