Al di là dei luoghi comuni, sono quattro i settori che richiedono un intervento rapido: giustizia, lavoro, liberalizzazioni e welfare
di Nicola SALVAGNIN
Quando qualcuno dichiarerà con fermezza: «Non bisogna fare le riforme», sarà segno che ha capito cosa siano queste benedette riforme che in Italia tutti invocano e nessuno fa. Perché “fare le riforme” è diventato un imperativo di governo, e un pauroso luogo comune.
L’Italia – si dice – sprofonda perché non si fanno, queste riforme; al paio della “ripresa economica” e dei necessari stimoli alla ripresa stessa, che tutti invocano e, a quanto pare, nessuno fa. Forse ci saranno delle ragioni perché questi luoghi comuni non diventano agenda governativa di alcuno. Forse perché di riforme se ne possono fare tante, alcune delle quali poi appaiono più che altro contro-riforme. Soprattutto perché non sono la panacea di tutti i mali, e non lasciano sul campo tutti vincitori e nessun perdente.
Quando poi la parola nasconde altro – per esempio una soppressione, un taglio, una riduzione – è tutto da discutere se si tratta di progresso sociale ed economico, o bastonata camuffata. Tale, per esempio, è apparsa alle decine di migliaia di precari la riforma scolastica voluta dal ministro Gelmini. Porte chiuse all’insegnamento e allo stipendio: non l’hanno presa bene. E le varie riforme sanitarie che stanno portando a una morìa di ospedali nelle varie regioni italiane: non sempre le comunità locali esultano di gioia, non sempre è il malato al centro di queste decisioni.
Il fatto è che si dovrebbe parlare di cambiamento, più che di riforma. Una giustizia più snella, più efficace, più “giusta” sarà pure interesse di tutti, ma è molto discutibile che sia pure vantaggiosa, per esempio, per molti avvocati o per taluni magistrati. Una riforma fiscale si può fare in cento modi: avvantaggiando questo o quel ceto sociale, per esempio. Ma allora non si tratta più di riforma, ma di politica.
E siamo sicuri che uno Stato più “snello”, una burocrazia meno “soffocante”, una spesa pubblica più “contenuta” siano tutti raggi del sol dell’avvenire? A prima vista sì, e non c’è italiano che non si sia indignato per la mancata soppressione delle Province. Poi bisogna mandare a spasso decine di migliaia di dipendenti delle stesse, perché a spostarli altrove o in qualche altro capitolo di spesa non si risolve granché, e intanto si lasciano scoperte competenze e funzioni importanti. È stata sommersa di applausi la scelta governativa di chiudere con un tratto di penna l’Istituto per il commercio estero, accusato di essere un carrozzone inutile e costoso. Salvo poi scoprire che, magari, bisognava sostituirlo con qualcos’altro, altrimenti la promozione dei nostri business all’estero si sarebbe trovata ancor più orfana del solito. Così è accaduto. Insomma, quando uno proclama «bisogna fare le riforme», nasconde l’assenza di idee sulla politica, cioè sulle scelte da fare. Scelte che possono essere giuste, sbagliate, ma mai assolutamente indolori.
Stabilito questo, un governo di qualsiasi colore oggi in Italia si trova in faccia questi quattro problemi ineludibili: una giustizia – soprattutto civile – da terzo mondo; un mercato del lavoro bloccato, che penalizza i più giovani; la liberalizzazione di alcuni settori dominati da solidi corporativismi; una sistemazione intelligente della previdenza e dell’assistenza sociale, il cosiddetto welfare.
Se il processo penale attiene soprattutto alla sfera della civiltà, quello civile condiziona di molto l’economia di un Paese: si pensi alla mancata protezione dei creditori o alla lunghezza esasperante per ottenere un risarcimento. Tutte cose che, tra l’altro, terrorizzano gli investitori esteri. Come se ne esce lo sanno tutti, il farlo spetta a un legislatore serio e preparato, sostenuto da una solida maggioranza.
Il welfare italiano va separato tra assistenza sociale e previdenza. La prima merita molti controlli e fondi adeguati pescati dalla fiscalità generale (ci staranno le pensioni “sociali”), ma anche qui siamo nella sfera della civiltà di una comunità; la seconda deve finalmente parametrare le pensioni ai contributi effettivamente versati da un lavoratore. Quello dell’età è un falso problema, se non ci sono soldi per pagare le pensioni.
Liberalizzare è un altro luogo comune. In certi casi non ha senso (per curarmi vado da un medico, non da uno che si professa tale), in altri permetterebbe di scrostare certe rendite di posizione e di creare nuova occupazione. Anche qui, cum grano salis: la “lenzuolata” di liberalizzazioni dell’allora ministro Bersani portò aria fresca, ma anche diverse storture da mancata regolamentazione.
Infine l’inizio di tutto, cioè le relazioni industriali. Entrino in campo le idee politiche, se ancora qualcuno le ha, per decidere che fare. Oggi c’è un enorme blocco in entrata, nel mondo del lavoro, causato anche dalla rigidità delle norme sui licenziamenti individuali: questo il dato di fatto. Scambiare la possibilità di licenziare con un forte risarcimento economico e un’efficace sistema di sussidi e di riposizionamento professionale non appare più un tabù; così come dall’altra parte va dato un giro di vite a una legge Biagi che ha sì flessibilizzato il lavoro, ma la cui interpretazione pratica è stata una sorta di precarizzazione di massa.
Sono temi in cui – finalmente – una Destra e una Sinistra potrebbero dire cose chiare agli elettori, temi su cui delineare idee e interessi sociali. Tra l’altro, questi quattro punti porterebbero certamente giovamento alla sospirata “ripresa economica”, trasportandolo dall’empireo del luogo comune alla concretezza di redditi e posti di lavoro.