Il premier britannico costringe i partner comunitari a una trattativa, prima del referendum per la permanenza o meno del Regno Unito nella “casa comune”
di Gianni BORSA
«Ho negoziato un accordo per dare al Regno Unito uno speciale status nella Ue». Anzi, parole sue: «I have negotiated a deal to give the Uk special status in the Eu». E quindi «ora posso raccomandare di votare per la permanenza del nostro Paese» nell’Europa comunitaria. Gongola David Cameron: ha appena ottenuto, dopo due giorni di serrate e spigolose trattative al Consiglio europeo del 18-19 febbraio a Bruxelles, tutte le clausole opt-out e le eccezioni che aveva richiesto agli altri 27 capi di Stato e di governo dell’Unione per poter tornare a Londra e sostenere il sì al referendum che egli stesso indirà, domandando ai sudditi della Regina se preferiscono restare oppure uscire dalla “casa comune”.
Mentre il mondo traballa. Referendum che il premier conservatore aveva promesso nella campagna elettorale dello scorso anno pur di tornare al numero 10 di Downing Street; salvo poi ridiscendere a Bruxelles per chiedere ai partner europei di cavargli le castagne dal fuoco ed evitare il Brexit.
Così, grazie alle pretese del Regno Unito, l’Europa è costretta a non andare oltre la punta del proprio naso mentre è assediata da migranti in fuga da guerra e fame (e per questo vede rialzare al suo interno muri e fili spinati); in Siria e in tutto il Medio Oriente è in atto un conflitto sanguinoso, alimentato dall’Isis e dalla latitanza internazionale; Mosca mostra i muscoli e gioca a Risiko con Stati confinanti o meno; e la crisi economica non è affatto alle spalle, con milioni e milioni di disoccupati e relative famiglie allo stremo. Ma tutto questo resta sullo sfondo: Cameron ha in testa il referendum e tiene inchiodato il Consiglio europeo fino all’accordo finale, messo nero su bianco su tre decine di pagine.
Le decisioni sottoscritte. Accordo (che ovviamente entrerà in vigore solo nel caso in cui al referendum prevalessero i sì) comprendente aspetti tecnici e politici. Londra potrà concretamente limitare per un periodo di 7 anni l’accesso ai benefici del welfare per i lavoratori comunitari che saranno ammessi sull’isola (il cosiddetto “freno di emergenza”). Oltre a ciò, il Regno Unito ha ottenuto che alla prossima revisione dei Trattati sarà esentato dal principio dell’“ever closer Union” (Unione sempre più stretta), ossia il fondamento del progressivo percorso europeo verso l’unità, sancito con il Trattato di Roma del 1957. Di fatto gli inglesi si smarcano per sempre dalla partecipazione all’Eurozona, fanno un passo indietro rispetto all’unione bancaria (Cameron risponde così agli interessi della City), all’esercito europeo, alla cooperazione giudiziaria e di polizia; e ovviamente non partecipa né parteciperà a Schengen.
Commenti a caldo. «La Gran Bretagna – ha aggiunto David Cameron prima di riprendere la valigia per tornare a casa – non farà mai parte del superstato europeo», travisando il concetto che presiede all’Unione europea: non un “superstato”, ma una graduale e progressiva integrazione tra popoli e Stati per realizzare un “bene comune” superiore nel rispetto del principio dell’“unità nella diversità”.
Del resto occorre riconoscere un merito a Cameron: pur avendo forzato la mano, ha rimesso al centro del dibattito gli obiettivi comunitari e le modalità politiche per raggiungerli, avviando l’Europa – oggi poco compresa e poco amata dai cittadini – a un serio esame di coscienza. Chiudendo il Consiglio europeo, il suo presidente, Donald Tusk, ha commentato: «Abbiamo rinunciato a parte dei nostri interessi per mostrare unità». Gli ha fatto eco il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, facendo buon viso a cattivo gioco: «Questo accordo non accresce le crepe ma costruisce ponti». Mentre la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha sentenziato: «Abbiamo dato al premier Cameron un pacchetto con cui non potrà fare a meno di sostenere la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea». Il commento del presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi: «Bene l’accordo tra Ue e Gran Bretagna, ma la partita per l’Europa inizia adesso. Deve fare di più da tutti i punti di vista, a partire dai migranti».
Possibili conseguenze. E qui arrivano i problemi. Perché le generose concessioni a Londra potrebbero scatenare reazioni disgreganti: analoghe richieste di “partecipazione a responsabilità limitata” da parte di altri Stati membri (gli sguardi già si volgono a Est e alla Scandinavia); ripicche su aspetti concreti dell’integrazione, a partire dall’accoglienza dei migranti, dall’unione bancaria, dal mercato unico, dalla gestione-spartizione dei fondi, dall’unione dell’energia e altro ancora. Non a caso, mentre al Palazzo Justus Lipsius, sede del vertice, ci si concentrava sul Brexit, l’Austria annunciava misure unilaterali sul fronte-profughi, seguita da altrettante minacce da parte dei leader di Grecia, Ungheria, Slovenia e Croazia. Giusto per confermare un’impressione, che si spera possa essere smentita dai fatti: se al referendum britannico prevalessero i “sì” a restare nell’Ue, sarebbe di fatto certificata l’Europa a più velocità; se, malauguratamente, vincessero i “no”, l’Ue perderebbe un partner essenziale, restando “monca”.
Ma forse si farebbe luce su chi intende avanzare nella costruzione europea e chi, invece, intende fermarsi qui.