Una vicenda che chiama tutti a interrogarsi sul significato autentico del “prendersi cura”, che affonda le sue radici nel senso cristiano della speranza
di Paolo MARTINELLI
Vescovo ausiliare di Milano
La vicenda triste di DJ Fabo invita a riflettere su una questione radicale che riguarda tutti.
Su tutta la vicenda ci deve essere profondo rispetto. Giustamente è stato detto che quando una persona decide di non vivere più siamo tutti, in un certo senso, sconfitti. Dunque, compassione e vicinanza nella preghiera per lui, per i suoi familiari, e per chi gli ha voluto bene. Il cappellano della Fondazione che assisteva a domicilio Dj Fabo – intervistato da Avvenire – ci ha raccontato di una situazione di grande tribolazione. La madre stessa, prima del suicidio assistito, «ha chiesto di celebrare una messa per lui dopo la morte, e che avvenga nella chiesa in cui è stato battezzato. E Fabo ha acconsentito». Il cuore dell’uomo è davvero un abisso di mistero.
Ciò che, invece, mette profondamente a disagio è la strumentalizzazione di un tale dramma umano per diffondere sostanzialmente una cultura di morte. Il desiderio di “farla finita” in situazioni psichiche e fisiche così compromesse è innanzitutto esigenza radicale di senso, è domanda di significato del vivere. Questo è il rischio più grande del nostro tempo: è la perdita del senso e del gusto del vivere. Si dovrà giustamente continuare a discutere in modo adeguato, senza indebite pressioni emotive, sul testamento biologico e sul fine vita, approfondendo quella sapiente via media che rifiuta sia l’accanimento terapeutico, sia l’eutanasia. Si tratta di assecondare la realtà accompagnando la persona in una appropriata relazione di cura nel suo percorso di vita. Occorre dilatare in modo adeguato l’arte terapeutica, anche quando l’atto clinico dovesse risultare sempre meno significativo. L’arte terapeutica è fatta di competenza e di vicinanza, è relazione di cura, perché ci si “prende cura” dell’altro, come atto costante d’amore, anche quando vengono meno le “cure”. La relazione di cura non risparmia certo il dramma di una condizione di disabilità gravissima, ma permette di viverla in tutta dignità.
Infine, di fronte ad un evento come la morte del Dj Fabo è impossibile non arrivare alle questioni ultimative, al tema del senso della sofferenza e della speranza. È vero che la fede cristiana non ha e non vuole dare una risposta concettuale al tema del dolore. Tuttavia afferma radicalmente il senso, la direzione e il significato che ogni vita umana possiede per il fatto stesso di esistere. Ciascuno è “in relazione” e posto dentro il misterioso disegno buono del Padre. Esistere è essere voluti. Il nostro è un Dio che si è sporcato le mani con la sofferenza, l’angoscia e la morte. La risposta non sta in parole di spiegazione, ma in una presenza che ama, fino alla fine. La morte non è liberazione dal corpo, come si ripete spesso in questi giorni. Gesù dona il suo corpo per amore (Eucaristia). Il suo corpo risorto porta le piaghe della passione, diventate ora segni di vittoria. Questa grande speranza anima, anche inconsapevolmente, cuori e mani a prendersi cura del corpo dell’altro, anche quello gravemente malato, riconosciuto come dono e compito, come luogo dell’incontro tra persone che non smettono di amare.