Riflessione sul lavoro che manca e su quello senza regole con Gianni Bottalico, presidente delle Acli di Milano Monza e Brianza
di Pino NARDI
«Ci sentiamo come sentinelle del territorio, che vigilano sui nuovi bisogni sociali a cui cercano di dare espressione politica». Gianni Bottalico, presidente delle Acli di Milano Monza e Brianza, risponde così sul ruolo attuale dell’associazione da sempre impegnata a favore dei lavoratori. Tra le altre iniziative ricordiamo la gestione operativa, insieme alla Caritas, del Fondo famiglia-lavoro. Una riflessione preoccupata e severa quella di Bottalico in una stagione dove la crisi colpisce duro, in particolare sul fronte del lavoro, manifestando perplessità sulle misure che il governo sta predisponendo. E avanzando anche qualche proposta concreta.
Bottalico, come valuta le aperture senza orari dei negozi decise dal governo e le future liberalizzazioni: rilanciano il lavoro oppure rischiano di creare seri problemi ai piccoli negozi, coinvolgendo anche la giornata della domenica?
Si fa fatica a cogliere la relazione tra queste misure del governo e l’urgenza di rimettere in moto l’economia. Infatti, anche se tenessimo aperti i negozi 24 ore su 24 come possiamo pensare di rilanciare per questa via la domanda interna, i consumi delle famiglie, quando c’è sempre meno lavoro e rimangono sempre meno soldi in tasca da spendere? Quanto alle “liberalizzazioni” risulta davvero singolare pensare che categorie come tassisti, edicolanti, commercianti, benzinai o farmacisti costituiscano un blocco all’economia. Le misure di cui si parla contribuiranno a rendere più poveri anche questi segmenti di ceto medio ponendoli alla mercé della grande distribuzione, umiliano il lavoro autonomo e in definitiva si ritorcono contro l’interesse collettivo. Nel complesso sembrano misure dettate più da un dogmatismo ideologico ancora imperante che da una reale volontà di intervenire laddove è necessario: richiamare il mondo finanziario alle proprie responsabilità e individuare i settori in cui possiamo ancora avere un futuro industriale.
Da una parte si acuisce la precarietà dei giovani e dall’altra si assiste a un’ondata di chiusure di aziende con molti disoccupati, soprattutto tra i cinquantenni, che sfociano in proteste clamorose come i lavoratori sulla torre della Centrale. In sintesi, come riformare il mercato del lavoro?
Negli ultimi 15 anni in Italia di riforme del mercato del lavoro se ne sono fatte anche troppe in ossequio più a un paradigma finora dominante che per le reali esigenze di mercato. Davvero crediamo che in un momento come questo il problema sia rendere i licenziamenti più facili, quando nella pratica già lo sono per tutti, oppure piuttosto quello di tutelare i livelli occupazionali e di dare una speranza a chi è senza lavoro o lo ha perso? Bisogna spostare l’attenzione dalle forme contrattuali alle condizioni che permettano di trattenere il lavoro in Italia: serve una certificazione sociale dei prodotti che vengono importati nel mercato comune europeo, imponendo dazi quando la loro filiera di produzione non rispetta i medesimi standard richiesti alle nostre aziende. E dobbiamo scoraggiare le delocalizzazioni. Altrimenti si accentuerà la desertificazione industriale dell’area milanese e una parte consistente della forza lavoro – soprattutto i giovani, ma non solo, anche i lavoratori espulsi dal mondo del lavoro che avranno davanti a loro un limbo di vent’anni prima di raggiungere l’età pensionabile – risulterà a perdere, senza reali possibilità di impiego, con tutti i problemi di ordine sociale e politico che ne conseguono.
Il ceto medio è in particolare il più colpito dalla crisi economica. Quali iniziative concrete si possono mettere in campo?
L’impoverimento del ceto medio è il frutto della perdita di centralità del lavoro. Ciò ha provocato anche una modifica strutturale della società: la classe media si sbriciola e crescono le povertà. Un fenomeno che abbiamo osservato anche a livello provinciale nella ricerca condotta con l’Università cattolica su 100 mila dichiarazioni dei redditi presentate ai Caf Acli, che ci ha portato a indicare nei ceti medi "la nuova questione politica e sociale". Va ridata capacità di rappresentanza politica ai ceti medi, ben più di quanto abbia consentito il sistema elettorale maggioritario. Solo con un nuovo sistema elettorale di tipo proporzionale i ceti intermedi della società posso avere adeguata rappresentanza politica.
Il cardinale Scola nel Discorso alla città sottolinea il primato del soggetto del lavoro e critica la concezione del mercato come moloch. Queste indicazioni come interrogano la riflessione aclista?
Ci sono di stimolo a fare di più perché, come ha detto l’Arcivescovo nel Discorso alla città, «il domani avrà un volto nuovo se rifletterà la nostra speranza di oggi».