Il protezionismo e il nazionalismo da cui di solito discende creano aspre tensioni politiche sul piano internazionale e non garantiscono società più eque
di Stefano COSTALLI
I giornali e le tv americane hanno dato grande spazio negli ultimi giorni alle indagini del “Federal bureau of investigation” (Fbi) sui rapporti fra Trump e la Russia. La questione è difficilmente decifrabile, ma nelle ultime settimane sono emerse due novità. Da un lato, il direttore Fbi ha confermato l’esistenza dell’indagine e ha smentito che Obama avesse ordinato di intercettare il telefono di Trump. Dall’altro, l’ex Consigliere per la sicurezza di Trump, dimessosi perché accusato di aver avuto rapporti con il governo russo durante la campagna elettorale, ha dichiarato di essere disposto a testimoniare in cambio dell’immunità. La situazione si fa dunque complicata e Trump non può dare l’impressione di essere manovrato da una potenza straniera quando ha condotto tutta la campagna elettorale sul filo dell’orgoglio americano.
In questa chiave possono essere anche lette le iniziative di politica estera degli ultimi giorni. Trump ha bisogno di dare sostanza al suo famoso slogan “America first” e, quindi, agisce di conseguenza.
Sul piano militare, il segretario di Stato Tillerson ha chiarito al vertice Nato di Bruxelles che gli Usa non possono più tollerare l’attuale sproporzione nelle spese per il mantenimento della sicurezza in Europa. Gli Usa chiedono, dunque, agli alleati di aumentare le spese militari fino al 2% del Pil, impegno sottoscritto anni fa da tutti i membri della Nato, ma che quasi nessuno rispetta.
Per Paesi come l’Italia e la Germania significherebbe quasi raddoppiare l’attuale spesa. Se è vero che Trump e Tillerson non eccellono in diplomazia, hanno però dei buoni argomenti. Gli europei non possono continuare a lamentarsi per l’egemonia e l’ingerenza americane in ambito militare, per l’eccessivo costo del riequilibrio che porrebbe fine all’egemonia e pure per la richiesta americana di rispettare i patti. I Paesi europei devono affrontare seriamente il tema della sicurezza e della difesa, sia a livello europeo che rispetto al rapporto con gli Usa.
Sul piano economico, Trump ha firmato due ordini esecutivi volti a controllare le importazioni e ha annunciato di voler innalzare i dazi fino al 100% sulle importazioni di alcuni prodotti europei simbolici (la Vespa, il roquefort, l’acqua Perrier) in risposta al bando sulle importazioni di carne americana trattata con ormoni imposto dall’Ue. Anche in questo caso, la realtà dei fatti è meno rilevante degli annunci perché gli Usa rappresentano un mercato secondario per larga parte di questi prodotti. Inoltre, se effettivamente ci sono Paesi che sussidiano le loro imprese affinché vendano sottocosto in America, Washington ha il pieno diritto di saperlo e prendere le necessarie contromisure, così come ha il diritto di approfondire le ragioni del suo enorme disavanzo commerciale.
Il problema sta nell’idea di fondo propagandata da Trump, ossia che il protezionismo possa costituire la soluzione ai problemi della classe operaia statunitense, che le guerre commerciali siano normali e che gli Stati Uniti siano delle vittime.
Trump pone il problema della de-industrializzazione americana, anche se è difficile dire se lo ponga dal punto di vista dei lavoratori o di alcuni grandi produttori che soffrono la concorrenza straniera. Il tema ovviamente esiste, ma non solo negli Stati Uniti. Esiste in tutte le economie più ricche e non a causa delle politiche commerciali fraudolente di qualche Stato, ma principalmente a causa del progresso tecnologico e del mancato adeguamento delle politiche sociali statali. Il libero commercio crea ricchezza a livello aggregato: è uno dei pochi risultati certi della scienza economica. Il problema poi è come questa ricchezza viene redistribuita. Le nostre società, a cominciare da quella americana, sono sempre più disuguali ma ciò è il risultato di mancate politiche redistributive statali. Il protezionismo e il nazionalismo da cui di solito discende creano aspre tensioni politiche sul piano internazionale e non garantiscono società più eque.
Se gli Stati Uniti imporranno dazi sui prodotti cinesi, saranno prima di tutto gli americani più poveri a farne le spese e i guadagni che dopo una lunga riorganizzazione dei processi produttivi potrebbero derivarne saranno concentrati nelle mani dei produttori americani.
La battaglia da fare a livello internazionale è sull’armonizzazione dei sistemi di welfare e sul consumo responsabile, non sulla creazione di blocchi commerciali contrapposti. Certo, è una strada complessa, ma prima si fermerà la politica fatta a colpi di Twitter e meglio sarà per tutti.