Quando un fatto straordinario diventa l’oggetto di tutte le attenzioni, come nel caso del terremoto, riemergono i canali informativi tradizionali capaci di produrre in modo sistematico e organizzato il racconto dell’evento

di Andrea MELODIA

Rotativa

Gradatamente, e inesorabilmente, le forti emozioni che hanno attraversato l’opinione pubblica dopo il terremoto nell’Italia centrale sono destinate a calare di intensità nei giorni a venire. Sta a ciascuno di noi accompagnare il naturale fenomeno psicologico del calo della tensione con la necessaria responsabilità, per evitare un inaridimento della cura, della pietà, del suffragio e anche dell’impegno a favore dei sopravvissuti, che molto più di noi dovranno attendere, se mai per tutti sarà possibile, il ritorno alla normalità.

Durante i funerali ad Amatrice, dopo aver letto il lungo elenco di nomi delle vittime, il vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, ha detto una semplice verità che ci ha costretto a riflettere: il terremoto non uccide, è parte essenziale della vita della terra; a uccidere sono le opere dell’uomo. Questo concetto ha colpito l’attenzione, cronache e titoli lo hanno ripreso. Si potrebbe interpretare semplicisticamente: cerchiamo i colpevoli. Ma il senso non è solo questo, e infatti subito dopo mons. Pompili ha aggiunto: evitiamo sciacallaggi e polemiche politiche nella fase della ricostruzione. E ha insistito sulla virtù della mitezza. Una omelia breve e incisiva, che ha lasciato un segno molto forte in una cerimonia particolarissima, nella quale abbandonato ogni protocollo le massime autorità erano come immerse da tutti i presenti.

È probabile che il vescovo di Rieti, che ben conosce il mondo della stampa, abbia pensato anche ai giornalisti preparando il suo intervento. Perché sciacallaggi e polemiche strumentali possono nascere da cattiva volontà e interessi particolari di qualcuno, ma per diffondersi e amplificarsi transitano per canali di comunicazione che sono controllati quasi sempre dai giornalisti. E la responsabilità della professione viene esaltata, nel bene e nel male, in occasione di eventi che, come il recente terremoto, contengono forti stimoli di emozione popolare.

A mano a mano che ci si allontana dagli eventi traumatici, cresce la tentazione di individuare nuovi percorsi di racconto, nuovi stimoli per rendere attenta l’opinione pubblica. Sarà inevitabile nei prossimi giorni veder crescere l’attenzione degli organi di informazione sulle indagini penali, alla ricerca di colpevoli da additare alla pubblica esecrazione. Intendiamoci: è giusto che si indaghi e che se ne dia notizia, perché davvero il male non viene dal terremoto ma dalle opere dell’uomo. Per non cadere nello sciacallaggio, indicando colpevoli prima che le colpe siano provate, è necessario che gli organi di stampa esercitino una grande vigilanza e prudenza. Infatti le opere dell’uomo hanno causato le vittime, ma non sempre sono realmente colpevoli coloro che le hanno realizzate.

Vorremmo davvero che il sistema giornalistico italiano fosse capace, in questa circostanza, di attivare buone pratiche d’investigazione autonoma, anziché limitarsi a frequentare le anticamere dei magistrati, cercando di carpire soffiate non sempre disinteressate.

È dunque giusto, superata la prima emergenza, fermarci un attimo a riflettere anche su quale sia stato il ruolo dell’informazione e quale possa continuare a essere nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

La prima sensazione è che si sia avuta la riprova che nei momenti più critici per l’informazione trovi conferma la perdurante necessità del lavoro giornalistico professionale, forte, esperto, organizzato. I social network, tanto importanti nella vita di tutti i giorni per la loro pervasività e per la capacità di costruire relazioni nella rete, quando un fatto straordinario diventa il punto focale, l’oggetto di tutte le attenzioni, quando la comunicazione torna a essere tendenzialmente in una sola direzione, divengono sussidiari e lasciano riemergere canali informativi tradizionali capaci di produrre in modo sistematico e organizzato il racconto dell’evento: reportage, inviati, telecronache e radiocronache in diretta, edizioni speciali non stop, pagine e pagine di giornale selettive e meditate, reti di corrispondenti locali. È una macchina complessa che richiede, similmente a quella dei soccorsi ma in proporzioni molto minori, risorse straordinarie, impegno, sacrificio.

In queste occasioni i social network certo non soccombono, anche per la loro grande capacità di riappropriarsi, di rilanciare, di ripetere e diffondere capillarmente il prodotto altrui e di ridargli senso passandolo al vaglio dei commenti e del dibattito in rete. Però l’informazione primaria è passata per altri canali, più tradizionali, e credo che molti anche tra i giovani abbiano avvertito questa discontinuità.

Uno slogan spesso ripetuto nei corsi di aggiornamento professionale per i giornalisti è che tutto il giornalismo è servizio pubblico. Naturalmente si vorrebbe dire che tutto il giornalismo dovrebbe essere servizio al pubblico, ben sapendo che spesso questo non è vero. Ecco: nel racconto di una grande crisi il senso del servizio può più facilmente, come è avvenuto in questa occasione, tornare a essere al centro della professione. Vorrei con questo esprimere un giudizio globalmente positivo sul giornalismo italiano in questa tragica circostanza. Davvero la professione giornalistica sa dare il meglio di sé nelle emergenze.

Anche ciò che è servizio pubblico ufficiale, cioè la Rai, ha offerto buona prova di sé: confermando così di avere ancora un grande potenziale. Si attendono gli interventi necessari che le consentano di rendere al meglio anche in momenti meno straordinari.

Ora vengono le due fasi più difficili per l’informazione sul terremoto. La prima è quella della routine, quando le notizie perdono gradatamente impatto emotivo e rischiano consuetudine e noia. A quel punto occorre ricordarsi i nomi e i volti delle vittime e dei sopravvissuti e convincersi di lavorare per loro, secondo giustizia e rispetto per tutti.

L’altra fase è quella del progetto, che si realizza quando l’informazione costruisce nuovi percorsi di indagine e di comunicazione con il pubblico: si tratterà allora di raccontare la ricostruzione, la ricerca di nuove prassi e nuove regole per la prevenzione, di assistere all’inevitabile scontro politico cercando con autonomia, competenza e discernimento di aiutare il pubblico a capire e a fare le scelte migliori.

Di certo i giornalisti non sono i soli o i principali responsabili della vita pubblica di un Paese. Però se nel loro insieme lavorano bene, il Paese trova più facilmente unità, consapevolezza e commozione comune, cioè capacità di muoversi ordinatamente per raggiungere un risultato. È quanto ci auguriamo possa avvenire. Sarebbe un esito molto positivo per tutti, non solo per i terremotati.

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