Arrivano da Russia, Ucraina e Bielorussia e a Milano, presso la Caritas, hanno raccontato la loro obiezione di coscienza al conflitto e il loro impegno per i diritti umani e civili
di Paolo
BRIVIO
No significa no. No radicale alla guerra, anzitutto. No all’obbligo di imbracciare armi, per chi ritiene di dover far valere il proprio diritto (nativo) all’obiezione di coscienza al servizio militare. No alle politiche e alle punizioni che sovvertono, arrivando fino al carcere per gli obiettori e alla pena di morte per i disertori, ciò che uno Stato dovrebbe sempre fare: orientare i propri cittadini a non uccidere.
Con voce esile, ma intenzioni ferme, e dimostrando una buona dose di coraggio personale, Kateryna Lanko, Darya Berg e Olga Karach, ospiti nella giornata di sabato 25 febbraio di Caritas Ambrosiana (vedi qui il video), hanno raccontato la loro esperienza di attiviste per i diritti umani e civili fondamentali, nell’ambito di movimenti pacifisti e nonviolenti, all’interno di Ucraina, Russia e Bielorussia, ovvero i tre Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto che è tornato a insanguinare l’Europa.
Le tre giovani donne si sono conosciute e confrontate in Italia, facendo tappa e animando incontri in diverse città, invitate dal Movimento Nonviolento nell’ambito della campagna «Obiezione alla guerra» e dell’iniziativa «Europe for peace».
Preparare un futuro diverso
Nel loro passaggio milanese hanno dimostrato cosa significhi piantare semi di pace in un terreno che non sembra voler rispondere, al momento, che a logiche di guerra. «Credo nella praticabilità e nell’importanza del pacifismo – ha esordito Lanko, attivista del Pacifist Movement Ucraine -, anche in un Paese sottoposto a un’aggressione militare. Vogliamo che a ciascuno sia riconosciuto il semplice diritto – centrale nella civiltà giuridica europea, di cui l’Ucraina aspira a essere parte integrante – a non uccidere altre persone. Oggi, in Ucraina, questo diritto è precluso a ogni maschio tra i 18 e i 60 anni, che non può lasciare il Paese perché reclutabile nell’esercito: chi sostiene quel diritto rischia la prigione, ma in realtà prepara il terreno della nostra nazione a un futuro non fondato sulla centralità delle armi».
Sottrarre braccia alle armi
A differenza della loro collega ucraina, le altre due attiviste hanno dovuto lasciare i loro Paesi a causa del loro impegno, osteggiato dai rispettivi regimi. Darya Berg ha dovuto riparare in Georgia: «Da lì opero, con il progetto Go by the forest, per sostenere la dissidenza e la diserzione di tanti russi, soprattutto giovani. Molti miei connazionali non si identificano con Putin, ma sono silenti per paura. Intanto, però, il regime di Mosca ha dovuto incarcerare 22 mila persone in un anno, perché contrarie alla guerra, e noi ne abbiamo aiutate 4 mila a schivare l’arruolamento dopo la mobilitazione militare di massa, dichiarata a settembre, predisponendo per loro rifugi segreti in patria e vie sicure per l’espatrio. Lavoriamo concretamente per la pace, sottraendo braccia alla guerra».
Una missione speciale
Lo stesso principio, e la stessa intenzione, sono costate per 9 volte la dichiarazione di «pericolosa estremista» e di «terrorista», da parte del regime bielorusso, a Olga Karach, che ha dovuto riparare in Estonia per proseguire la sua azione con l’ong Our House. «Sono un agente segreto in missione per la pace – ha ironizzato, ma fino a un certo punto -. Missione alquanto speciale: vogliamo rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko (il presidente bielorusso, ndr). Lui è preoccupato per la nostra campagna “No means no”, e ne ha ben donde. Gli uomini hanno diritto a non toccare le armi e noi ci battiamo in molti modi per sostenere, anche legalmente, gli obiettori di coscienza. Ne servirebbero tra i 10 e i 20 mila per impedire che la Bielorussia apra un secondo fronte di guerra, per il quale si sta preparando: chiediamo ai Paesi europei di attivare canali umanitari e possibilità di visto per i disertori, sarebbe un modo concreto per disinnescare l’estensione del conflitto».