Kim Jong-un, uno stratega: per il momento, sta vincendo con la sua tattica della tensione. L'analisi di Antonio Fiori, docente di politica e relazioni internazionali del continente asiatico

di M. Chiara BIAGIONI

Giappone

Aprire un tavolo negoziale e accettare di farlo subito, senza aspettare che la Corea del Nord smantelli prima il suo arsenale nucleare. La via negoziale richiede tempo ma è l’unica in grado di far uscire dallo “stallo”, creato dal regime di Pyongyang, e dalla tensione generata ad arte dalle sue continue minacce. È l’analisi di Antonio Fiori, docente all’Università di Bologna di politica e relazioni internazionali del continente asiatico, uno dei maggiori esperti in Italia di penisola coreana. Intanto, il lancio di un missile partito dalla Corea del Nord ha sorvolato l’isola giapponese di Hokkaido. È il secondo lancio sul Giappone in sole tre settimane, segno di una minaccia nucleare sempre più prepotente.

Professore, perché il Giappone?

«Prima di tutto perché è un Paese geograficamente vicino e si trova nell’orbita che i missili nordcoreani possono tranquillamente raggiungere. C’è poi anche un problema di odio conclamato e atavico che risale a quando i giapponesi hanno colonizzato la penisola coreana per 35 anni dal 1910 al 1945. E poi c’è una questione geo-strategica, nel senso che i giapponesi rimangono insieme ai sudcoreani i principali alleati storici degli Stati Uniti per cui colpire il Giappone significa minacciare gli Usa».

Un attacco nucleare da parte di Pyongyang comporterebbe una reazione immediata della comunità internazionale che implicherebbe una sconfitta totale per la Corea del Nord se non addirittura la sua scomparsa dalle cartine geografiche. A suo avviso, quindi, Kim Jong-un è un pazzo o un fine stratega?

«Escluderei la possibilità che sia un pazzo. Se Kim Jong-un fosse totalmente uscito di senno, probabilmente un target l’avrebbe già colpito. Qui c’è piuttosto una strategia vera e propria alla base delle sue azioni e non una volontà di suicidio».

Potrebbe essere allora un manager che sta mostrando di essere in possesso di armi nucleari di altissimo livello da piazzare sul mercato internazionale?

«Questo è un po’ più difficile. I nordcoreani già portano in giro per il mondo materiale bellico, normalmente smontato, che deve poi essere assemblato e completato. Non ci sono missili veri e propri che vengono trasportati verso Paesi amici della Corea del Nord. C’è della componentistica che viene smerciata verso alcuni Paesi mediorientali e africani».

Kim jong-un ha detto a Stati Uniti e Giappone: «Vi ridurremmo in cenere». La minaccia è reale?

«No. Conoscendo la Corea del Nord, c’è molta propaganda. Era stato dichiarato che l’obiettivo era Guam. Ovviamente l’isola non è stata colpita ma ci sono stati due lanci missilistici che hanno sorvolato il Giappone. La tensione si alza anche in questa maniera e l’ultima gittata del missile ha lanciato svariati messaggi: possiamo colpire il Giappone; possiamo colpire la base Andersen di Guam, in territorio statunitense; stiamo portando avanti, e con una sempre maggiore acquisizione tecnologica, un progetto nucleare che ci pone come attore importante nel quadro internazionale della deterrenza».

Quindi dietro alle continue minacce di Kim Jong-un, cosa c’è?

«C’è una vera e propria strategia della tensione posta in essere da un Paese che non vuole né vendere se stesso né costruire alleanze con altri Paesi che possano ergersi con lui contro l’ordine mondiale stabilito. La Corea del Nord sta dimostrando al mondo di aver raggiunto o di stare per raggiungere una situazione conclamata di potenza nucleare missilistica e sta dicendo che non si fermerà fino a quando la comunità internazionale non le riconoscerà lo status di potenza nucleare. Un gioco al massacro perché è ovvio che la comunità internazionale e, nello specifico, Washington non accetteranno mai le condizioni di Pyongyang. Se lo facessero, il passo successivo implicherebbe che Stati Uniti e Corea del Nord si confrontino su base equa».

Chi sta vincendo al momento attuale?

«Trump e la comunità internazionale non sanno più che pesci prendere. Sanno che un eventuale attacco che sia totale o portato avanti con interventi chirurgici, getterebbe l’intera area orientale in uno stato di prostrazione assoluta. Ma sanno anche che non intervenire presta il fianco al regime nordcoreano. Insomma, chi ne sta uscendo meglio è il regime norcoreano, che sta creando un diffuso stato di stallo a fronte del quale loro continuano ad andare avanti con il gioco della tensione e con il miglioramento del loro arsenale».

Che consiglio darebbe a Trump?

«È chiaro che non sapendo come intervenire, gli Stati Uniti tengono aperto un ampio ventaglio di opzioni. Ma se dovessi dare un consiglio a Trump, gli direi che considero la posizione degli Usa sbagliata nei suoi assunti di base. Attualmente la comunità internazionale sta chiedendo alla Corea del Nord di fermarsi, di smantellare l’arsenale nucleare, venire incontro alle richieste della comunità internazionale e, solo dopo aver accettato queste condizioni, di sedersi attorno al tavolo delle trattative. Sono però condizioni che Pyongyang non accetterà mai perché una Corea del Nord completamente svuotata della sua deterrenza è un Paese che diventa un canarino davanti a un’aquila che la mangia. Credo allora che la situazione debba essere rovesciata anche a costo di cominciare il processo delle trattative accettando di farlo a partire da una sconfitta iniziale, e cioè senza imporre alla Corea del Nord uno smantellamento della deterrenza nucleare. Un processo di trattativa che una volta avviato potrebbe rappresentare una vittoria graduale e progressiva. Ci vorrà del tempo ma è l’unica via di uscita allo stato attuale».

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