Di anno in anno, lo shopping on line si impadronisce di fette crescenti di mercato. Vantaggi per il singolo consumatore, effetti negativi sui lavoratori del settore
di Nicola SALVAGNIN
L’innovazione molto spesso non passa attraverso la volontà collettiva, insomma non nasce per legge. Così capita che la nostra vita sia rivoluzionata a prescindere, senza che possiamo farci qualcosa. È il caso, ad esempio, del commercio, una fetta decisiva della nostra economia. In tempi remoti, dai carretti e dalle bancarelle si spostò nelle botteghe delle cittadine. Alcuni decenni fa, un’altra rivoluzione: addio negozietti, via libera a super e ipermercati, dove si può trovare di tutto: dalla mozzarella alla lavatrice; dal giornale al parafarmaco. E il piacere di camminare per le vie del borgo? E il rapporto umano con il bottegaio? Risparmio e parcheggio facile, fu la risposta collettiva, qui come in tutto il mondo occidentale e occidentalizzato.
Non è durata molto, l’epopea della grande distribuzione organizzata. Perché nel frattempo è arrivato internet, si è diffuso in ogni dove, ha portato con sé il figlioccio e-commerce. Oramai si può acquistare qualunque cosa – dall’auto alle scarpe – stando seduti a casa e spendendo ancor meno che nell’ipermercato. Di anno in anno, lo shopping on line si impadronisce di fette crescenti di mercato. E la sua diffusione fa rottamare le figure dei negozianti, delle commesse, delle cassiere…
Anche questa volta l’innovazione si è fatta strada con la solita formula: più facile, meno costoso. Uno smartphone, una carta di credito e il gioco è fatto.
Solo che ogni cambiamento porta con sé anche controindicazioni: con l’auto ci si muove di più e più velocemente del calesse, ma si rischiano incidenti mortali e s’inquina l’aria. Ecco, l’e-commerce di controindicazioni ne ha a bizzeffe, e assai pesanti. Cancella decine di migliaia di posti di lavoro sostituendoli con poche centinaia; apre le porte definitivamente a tutti i prodotti del mondo, relegando vieppiù quelli locali, quelli “made in”; cancella i negozi dalle città e quindi ne sacrifica la qualità del vivere, soprattutto per i più anziani; fa sparire soldi alle casse dell’Erario, dell’Inps, degli enti locali, dei cittadini che avevano immobili da affittare per il commercio. Non a caso il Fisco sta disperatamente cercando di inseguire i profitti che le multinazionali del settore occultano facilmente in paradisi fiscali e con girandole di fatture che lasciano sul territorio poco o niente. E altro ancora.
Per un singolo individuo – peraltro sempre più relegato nella sua sfera privata – è indubbiamente un vantaggio quando si veste da consumatore; ma nelle vesti di cittadino ha tutto da perdere. Quel che guadagna con il singolo affare, lo perde triplicato con gli annessi e connessi. Ma, come si sa, è il singolo affare ad attrarre di più rispetto agli eventuali corollari negativi.
E lo Stato, cosa può fare? I legislatori? Poco, pochissimo per il semplice fatto che le dinamiche dell’e-commerce prescindono appunto da volontà regolatrici. Hai voglia di regolare gli orari di lavoro o quelli di apertura degli esercizi commerciali fisici, quando poi l’e-commerce “lavora” 365 giorni all’anno, 24 ore su 24. È una concorrenza sleale che supera di slancio tutto un dibattito che abbiamo affrontato negli ultimi anni sul lavoro domenicale, sulle aperture nei giorni di festa, sui Natali passati nel centro commerciale.
Si ritorna tutti a casa: come consumatori, come disoccupati, come consumatori disoccupati.