Il magistrato Armando Spataro anticipa alcuni contenuti della conferenza che terrà all’Unversità degli Studi di Milano, a conclusione del ciclo di incontri culturali “Noi e l’Islam” organizzati dalla Fuci
di Silvia FAVASULI
Può il rispetto dei diritti costituzionali difenderci dal terrorismo internazionale? Armando Spataro, sostituto procuratore del Tribunale di Milano, ne è convinto. Magistrato dal 1975, si è occupato del terrorismo italiano degli anni di piombo, di mafia e in anni recenti di terrorismo islamico. O meglio, del «cosiddetto terrorismo islamico», come tiene a precisare. Ha seguito il processo di Abu Omar e del 2003 è coordinatore del Dipartimento terrorismo ed eversione della Procura di Milano.
Giovedì 14 aprile, alle 16.30, all’Università degli Studi di Milano (aula 201 di via Festa del Perdono 3), terrà la conferenza conclusiva del ciclo di incontri culturali “Noi e l’Islam” organizzati dalla Fuci. Si parlerà di diritto e di terrorismo. Di come il primo possa aiutare a difendersi dal secondo.
Dottor Spataro, secondo lei è possibile affrontare il terrorismo internazionale con la sola forza del diritto?
Assolutamente sì. Aggiungo: non «si può», «si deve». Ma con delle precisazioni. Questo vale per le forme in cui il terrorismo si manifesta nelle nostre società democratiche. Non è applicabile alle zone calde di guerra, dove invece vale il diritto bellico che non sempre riguarda la magistratura.
Che cosa significa concretamente?
Significa anzitutto non abusare dell’intelligence. I servizi di informazione devono attenersi a compiti di prevenzione. Se entrano in possesso di notizie di reato devono immediatamente trasmetterle alla polizia giudiziaria, che indaga nelle forme previste dalla legge. È questione di distinzione dei ruoli. Ai servizi segreti le informazione preventive, alla magistratura l’indagine e la punizione dei reati.
Quali i rischi di una confusione dei ruoli?
Da una parte si rischia di avere servizi segreti che investigano senza rispettare le forme previste dalla legge, pensate per tutelare gli indagati di qualsiasi reato. Dall’altra c’è il rischio che la polizia giudiziaria operi come i servizi: anziché portare prove può infarcire le informative con notizie prive di riferimento alle fonti, con formulazioni generiche e quindi non utilizzabili in tribunale. Tutto questo farebbe più male che bene.
Il rispetto delle leggi fondamentali dello Stato italiano può scongiurare atti del cosiddetto terrorismo islamico anche in assenza di una piena condivisione dei principi fondamentali tra mondo occidentale e arabo?
La mia convinzione è che per essere credibili le istituzioni devono rispettare esse stesse le leggi, cosa che per esempio non è avvenuta nel caso Abu Omar o in altri casi di sequestri di persona, le famose extraordinary renditons. Se la magistratura applica fino in fondo il principio di obbligatorietà dell’azione penale, allora le nostre sono democrazie vere, credibili anche agli occhi delle comunità di immigrati, di qualsiasi colore e religione. E questo favorisce il rispetto reciproco di cui v’è bisogno. Agire in modo diverso non può che portare danni alle indagini – non ci avessero portato via Abu Omar avremmo potuto continuare a pedinarlo e scoprire altri complici – e alla lotta contro il terrorismo. Ricorrere a pratiche illegali e violente favorisce le ragioni del proselitismo.
L’Italia degli anni di piombo ha già vissuto un contrasto tra spinte emergenziali e la necessità di rispettare i diritti fondamentali. È possibile far tesoro di questa esperienza nel nuovo contesto di terrorismo internazionale?
Come disse Sandro Pertini – e la frase mi riempie ancora di orgoglio – «in Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». La cosiddetta legislazione dell’emergenza degli anni di piombo ha introdotto norme che hanno facilitato la lotta al terrorismo senza ridurre i diritti. È avvenuto con le leggi a favore dei pentiti o con la specializzazione delle forze di polizia e della magistratura. Possiamo parlare, dunque, di leggi specialistiche e non speciali. Ed è certamente possibile farne tesoro quando si ragiona di terrorismo internazionale. Quando per esempio l’Inghilterra ha proposto in sede europea di rendere segrete le fonti delle prove, l’idea è stata bloccata proprio grazie all’intervento dei magistrati italiani. La segretezza delle prove rende impossibile difendersi.
Lei tiene molto a parlare di «cosiddetto terrorismo islamico». Perché?
Io raccomando a tutti, anche quando parlo nelle scuole, di non dire «terrorismo islamico» perché è un’offesa per la religione islamica. Significa dire che i principi dell’Islam legittimerebbero il terrorismo, che invece non è conforme ai principi dell’Islam. Anche l’uso di termini adeguati è un modo per rispettare l’identità religiosa altrui.