Prevale in Italia un atteggiamento non favorevole alla famiglia con figli. L’opinione dell’esperto Gian Carlo Blangiardo, tra i coordinatori della ricerca Cei
a cura di Giovanna PASQUALIN TRAVERSA
Di fronte ai «gravissimi danni sociali, economici e politici» prodotti dalla «incuria italiana degli ultimi quarant’anni nei confronti del problema demografico», occorrono azioni politiche che «rimettano al centro la famiglia». È quanto afferma il volume Il cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell’Italia (Editori Laterza), a cura del Comitato per il progetto culturale della Cei. Nel nostro Paese da molti anni nascono meno di 600 mila bambini l’anno (561.944 nel 2010, secondo l’Istat), 150 mila in meno di quanto sarebbe necessario «solo per mantenere l’obiettivo della crescita zero», spiega Gian Carlo Blangiardo, ordinario di demografia presso l’Università di Milano-Bicocca, membro del Comitato Cei e tra i coordinatori della ricerca.
Questi dati non sono una sorpresa. Che cosa aggiunge il Rapporto-proposta?
La raccolta e l’analisi quantitativa di tutti i dati delle indagini demografiche a disposizione presentata nella ricerca è mirata a creare una sorta di consapevolezza rispetto a quelli che dovrebbero essere gli interventi pubblici per incoraggiare e sostenere la natalità. Non dobbiamo illuderci che esistano soluzioni magiche. Da Paese a forte saldo naturale positivo e a saldo migratorio negativo di trent’anni fa, oggi siamo un Paese a saldo naturale negativo e a saldo migratorio fortemente positivo; l’immigrazione non è tuttavia la soluzione. Anche le donne immigrate hanno infatti iniziato ad allinearsi al modello riproduttivo delle italiane; inoltre il fenomeno migratorio pone problemi d’integrazione in una popolazione sempre più anziana e di conseguenza meno aperta e flessibile di fronte ai cambiamenti.
Perché la scelta di dedicare un capitolo al “popolo dei non nati”?
Ancorché si tratti di un aspetto spesso trascurato dagli analisti, ci è sembrato doveroso riservare uno spazio a quel “silenzioso movimento demografico” effetto dell’entrata in vigore della Legge 194. Dal 1978 ad oggi le interruzioni volontarie di gravidanza, e quindi i bambini non nati, sono oltre 5 milioni; un dato che non si può far passare sotto silenzio e che oltre a contribuire all’impoverimento di risorse umane esprime un atteggiamento ‘culturale’ di tacita accettazione e/o diffusa “indifferenza” nei confronti del fenomeno.
Come immaginare e realizzare nuovi equilibri?
Per favorire una ripresa della natalità occorre anzitutto tener contro del fatto che se la fecondità si attesta intorno alla media di 1,4 figli per donna, in realtà le nostre connazionali desidererebbero avere due o più figli. Una sorta di schizofrenia tra desiderio e realtà, dovuta a cause note da tempo: la difficoltà di conciliare maternità e lavoro, il costo dei figli, un inadeguato sistema di servizi. Ma il principale ostacolo da superare è a mio avviso il clima culturale del nostro Paese non favorevole alle famiglie con figli. In treno e in aereo, nei ristoranti e negli alberghi – in generale nei luoghi pubblici – i bambini sono considerati elemento di disturbo; il modello ideale è rappresentato dalla coppia che si muove senza ingombranti “bagagli umani” al seguito. Tanto che alcuni sociologi e pedagogisti parlano di “eclissi dell’infanzia”. Purtroppo in Italia manca una cultura del valore “sociale” dei figli che vengono percepiti esclusivamente come un bene privato dei rispettivi genitori. E una parte di responsabilità è da ascrivere anche ai mass media che esaltano i valori della libertà e dell’autonomia presentando come poco appetibile, o addirittura negativo, il legame familiare e l’impegno per i figli.
È possibile invertire questa tendenza?
Il nostro Paese non investe a sufficienza in quel capitale umano indispensabile al mantenimento degli equilibri e a una garanzia di futuro per la società intera: in Italia una famiglia con tre figli è esposta al rischio di cadere in povertà. Di qui la necessità di misure pubbliche di sostegno (deduzioni e detrazioni fiscali, quoziente familiare, fattore famiglia, ecc.). Il nostro obiettivo deve essere allora un cambiamento di mentalità, ossia la creazione della consapevolezza che se “la coperta è corta” bisogna tentare di tirarla dalla parte giusta. Chi ha l’impressione di vedersela in parte sfilare – di fronte all’eventuale richiesta di sacrifici ai cittadini per un maggiore investimento in capitale umano – non deve sentirsi danneggiato, bensì comprendere che si sta lavorando per l’interesse di tutti e secondo un criterio di giustizia. In altri termini non si tratta di una perdita ma di un guadagno per il futuro della società intera. Non esiste soltanto l’ecologia ambientale: dobbiamo ragionare anche in termini di “ecologia umana”, di solidarietà ed equità per avere una società più giusta e coesa. Una società il cui pilastro centrale rimane la famiglia intorno alla quale il relativo Osservatorio nazionale ha prodotto un “Piano nazionale”. Le “ricette” esistono: occorre la volontà di seguirne le indicazioni.
Più che sostenere la “famiglia” oggi si tenta tuttavia di legittimare culturalmente diversi modelli familiari…
La solida famiglia “tradizionale” viene ancora percepita come valore dalla maggior parte della popolazione, continua a costituire la chiave di volta dei processi demografici e non ha validi sostituti nell’educazione dei figli. E ciò nonostante l’influenza e i messaggi pervasivi dei media cui ho già accennato – e sui quali ci soffermiamo nel Rapporto – che anziché enfatizzare questo modello familiare, propongono quello della “famiglia ricostituita” e “allargata”, sempre in evoluzione perché costituita da coppie che, avendo alle spalle altri legami, mettono insieme i figli avuti insieme a quelli frutto delle precedenti relazioni. Un modello sponsorizzato come “aperto” e “moderno”, e quindi allettante, ma che è fragile, rimane numericamente marginale e non corrisponde affatto alla realtà del nostro Paese. Anche su questo occorre aiutare la gente ad aprire gli occhi.