Milanese, l’Osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite racconta l’esperienza vissuta a New York durante il lockdown

di Maddalena MALTESE
Agensir da New York

Caccia
Monsignor Gabriele Caccia

La diplomazia di monsignor Gabriele Giordano Caccia, arcivescovo e osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, è una «diplomazia di prossimità». L’hanno provato gli anni di servizio nelle nunziature di Tanzania, Libano, Filippine e nella Segreteria di Stato. Lo prova anche oggi la sua presenza al Palazzo di Vetro, dove il Papa lo ha voluto il 16 dicembre 2019. Milanese di nascita, cittadino del mondo, monsignor Caccia è arrivato a New York, poche settimane prima che la metropoli si trasformasse nell’epicentro della pandemia da coronavirus e lui, che aveva aperto le porte della Missione a tutti, si è trovato a doverle chiudere subito per il lockdown forzato. «Ci siamo adattati, dopo qualche iniziale titubanza, alle piattaforme online», confessa, ma questo non gli ha impedito di esercitare la «diplomazia virtuale dell’incontro».

C’è stato un incontro che l’ha particolarmente toccata durante questo tempo a New York?
Più che un incontro direi una percezione frutto di tanti incontri con gli Ambasciatori che qui lavorano: ognuno promuove la visione e le priorità del Paese che rappresenta, ma in tutti c’è forte la convinzione che si è qui per qualcosa di più grande e si lavora per il bene di tutta l’umanità. Questo permette anche delle belle relazioni umane, al di là dei diversi punti di vista o posizioni ufficiali, cercando di creare dei ponti, dei punti di contatto e di dialogo, che è in fondo lo specifico dell’azione diplomatica.

Il 24 ottobre si è celebrata la Giornata internazionale dell’Onu sul tema «Building Back Together for Peace and Prosperity». C’è un piano “Caccia” per realizzare questo motto?
Direi che c’è un piano “Francesco” che con la sua preghiera, con la sua parola e soprattutto con il suo esempio e azione, apre cammini di riflessione e di condivisione che permetteranno di uscire dalla “crisi” migliori, avendo imparato a camminare insieme a partire dagli ultimi. Noi qui, in comunione con il cammino dell’intera Chiesa cattolica, cerchiamo di seguirne le indicazioni, farle conoscere, e avviare processi che possano portare a renderle realtà.

Ha parlato di crisi e anche le Nazioni Unite non ne sono esenti. Si invoca la loro riforma da tempo. C’è un contributo che la Missione della Santa Sede potrebbe dare a questo cambiamento?
La pandemia ha fatto toccare con mano e contemporaneamente in tutto il mondo, che problemi globali possono avere solo soluzioni globali e che se non si lavora insieme, spesso si fatica invano. In questo senso una Organizzazione intergovernativa riesce a essere efficace nella misura in cui i membri (cioè gli Stati) sono disposti in modo condiviso a impegnarsi per dei fini comuni. Se manca tale volontà multilaterale, ben poco si riesce a raggiungere a livello internazionale. In questo senso l’Enciclica Fratelli tutti aiuta a camminare nella giusta direzione creando le condizioni di fondo che rendono possibile tale spirito di collaborazione.

Vaccini e brevetti sono un tema che sta a cuore a papa Francesco. C’è qualche iniziativa a riguardo che state considerando di intraprendere dentro il Palazzo di vetro?
Diverse sono state le proposte e le iniziative che possono essere riassunte con la formula «un vaccino per tutti» e che si è tradotto in pratica con il programma “Covax” per una distribuzione equa dei vaccini nel mondo. Naturalmente molte sono le problematiche che si intrecciano su questo tema e toccano ambiti e aspetti che vanno oltre il vaccino. È quanto emerge anche dalla composizione della Commissione vaticana Covid 19, che il Santo Padre ha voluto per affrontare l’epidemia nel suo insieme.

C’è un contributo specifico che la fede, la cattolicità può dare al lavoro delle Nazioni Unite?
Certamente i valori evangelici, interpretati dalla dottrina sociale della Chiesa, i cui principali fondamenti sono stati richiamati da papa Francesco nelle udienze generali durante la pandemia, sono un lievito che può aiutare a far emergere il meglio in ogni persona e in ogni cultura per il bene di tutti. Quando, nel 1965, San Paolo VI visitò come primo Papa il Palazzo di vetro, disse che le Nazioni Unite aspirano a essere a livello politico e diplomatico ciò che la Chiesa cerca di realizzare a livello umano e spirituale: servire tutte le persone ovunque. In questo senso, la solidarietà e la fraternità, anzi la comunione, che esistono nella Chiesa cattolica, vogliono essere per le Nazioni Unite un modello ed anche un aiuto.

Immaginiamo che non manchino momenti complessi e faticosi nel suo servizio diplomatico. C’è stato un particolare episodio che le ha fatto dire: vale la pena spendere energie, tempo, fatica, patire per questo?
Nel Vangelo di Luca l’anziano Simeone dice a Maria che Gesù è segno di contraddizione. Lo stesso si ripete nella storia dei suoi discepoli: accanto a sostegno, rispetto, ammirazione, stima, amicizia per quanto la Chiesa annuncia e realizza nel mondo intero, non mancano mai critiche, sospetti, accuse, opposizioni, a secondo dell’argomento di cui si tratta, tuttavia in questo senso si può percepire anche la grande libertà della Santa Sede in quanto non è legata a nessuna coalizione o gruppo, ma si propone come la voce dei valori profondi dell’umanità e in particolare di quanti non hanno spesso voce e sono tra i più dimenticati o addirittura “scartati” come ci ricorda spesso il Santo Padre. Vale sempre la pena dedicare tempo, e anche soffrire un po’, per far sentire il grido dei poveri e bisognosi.

 

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