Il Regno Unito diviso in due: vincono Farage e il no, perdono Cameron e il sì. Ora prendono avvio i negoziati per ridefinire i rapporti tra l'isola e i Ventisette. Attese ricadute politiche interne e un auspicabile aggiornamento del progetto di integrazione comunitaria
di Gianni BORSA
Il referendum di ieri sancisce il leave, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, cui aveva aderito nel 1973. Anzitutto i dati: per il referendum sulla permanenza o l’uscita del Regno Unito dall’Ue hanno votato il 72% degli aventi diritto. 17 milioni e 410 mila sudditi britannici hanno scelto il “no” all’Europa (51,9%), 16 milioni e 140 mila si sono espressi per il “sì” (48,1%). Londra città, Scozia e Irlanda del Nord hanno votato per il remain, il resto del Paese per il Brexit (Britain exit).
Concretamente ora si apre una lunga fase di negoziati per ridefinire i rapporti tra Regno Unito e il resto dell’Unione europea. Ci sono due anni di tempo per riscrivere le regole di una convivenza che si vuole comunque amichevole ed economicamente sostenibile con vantaggio reciproco. Nel frattempo l’isola è in subbuglio e l’Europa comunitaria si lecca una nuova ferita: alla crisi economica, alla crisi migratoria, si aggiunge questa nuova crisi politica: non è la prima che l’Ue affronta; ma certamente questa appare tra le più ardue, capitando in un momento di disaffezione al progetto di pace e d’integrazione europea, avviato settant’anni fa sulle ceneri della seconda guerra mondiale.
Risuonano invece in queste ore le parole del vero vincitore (se così si può definire) di questa battaglia: Nigel Farage, visionario indipendentista, leader dell’Ukip, antieuropeo dichiarato, europarlamentare tignoso e indomabile, finalmente riuscito nel suo doppio intento: isolare il Regno di Elisabetta in un mondo ormai interdipendente e rifilare un fendente a una Ue già di per sé provata. «C’è un sogno che irrompe nell’alba di oggi su un Regno Unito indipendente – ha dichiarato Farage alla luce dei risultati del referendum -. Questa sarà una vittoria per la gente vera, una vittoria per la gente comune, una vittoria per la gente perbene. Spero che questa vittoria faccia crollare» il progetto europeo «fallimentare», e «ci porti a un’Europa di Stati sovrani, che commercino assieme, che siano amici e collaborino insieme, e che ci si sbarazzi della bandiera e dell’inno di Bruxelles». Infine: «Facciamo sì che il 23 giugno entri nella storia come il nostro giorno dell’indipendenza».
Sul versante opposto c’è il primo degli sconfitti: il premier David Cameron. Il quale lo scorso anno, pur di vincere le elezioni politiche, aveva promesso il referendum, del quale diventa vittima. Con questa sfida elettorale Cameron ha diviso il suo partito (i Conservatori); ha spezzato esattamente a metà l’elettorato e dunque il suo Paese; ha dato coraggio e forza vincente a populismo, nazionalismo ed euroscetticismo; ha isolato l’United Kingdom dal resto del Vecchio Continente e dal mercato unico europeo con il quale le imprese dell’isola svolgono la gran parte degli affari. E ora rischia di vedere la stessa nazione britannica spezzata in due se, tenendo fede alle promesse, la Scozia, convintamente europeista, dovesse indire un ulteriore referendum per staccarsi da Londra pur di rimanere nell’Ue.
Alla luce di tali esiti, a Cameron non resterebbe, per coerenza, che farsi da parte (come fa intendere dalle sue prime dichiarazioni post-voto), lasciando che siano altri ad avviare i negoziati di buon vicinato, partendo, questa volta, da un Regno Unito “extracomunitario”, così come extraUe diventano i suoi cittadini, le sue imprese, la sua City… Si salva solo la lingua, perché l’inglese è, nei fatti, una lingua globale, della quale nessuno può, nel terzo millennio, fare a meno.
Rimangono sul tavolo vari quesiti.
Il primo: sulla base di quali elementi certi e convinzioni consolidate i cittadini hanno scelto per il sì o per il no? Non è un dubbio sulla democrazia, ma un interrogativo sullo strumento referendum che, nella semplificazione di un sì o un no, porta a decidere su materie in genere complesse, che andrebbero forse trattate con maggior cautela e ampia visione strategica ed etico-politica, nelle sedi delegate dalle democrazie parlamentari. E il Parlamento inglese ha secoli di storia…
Secondo quesito: la scossa proveniente dal Regno Unito indurrà l’Ue a ripensarsi? Il sogno europeo dei “padri fondatori” resta indiscutibile e buono nelle fondamenta, ma richiede, alla luce dei tempi che cambiano, delle trasformazioni epocali in corso, delle nuove sfide interne ed esterne, di essere aggiornato, rafforzato e reso presentabile e nuovamente ambito – persino “amato” – dai cittadini europei.
Terzo punto: l’“esempio” inglese sarà seguito da altri Paesi membri, sull’onda dei nazionalismi diffusi che sperimentiamo da anni e che trovano il loro “volto scuro” nei muri risorgenti in varie parti del continente?
Così arriva almeno una quarta domanda: in relazione a questa Europa che sembra imboccare strade divergenti, prenderà forma un’Europa a più velocità o a geografie variabili? Perché è esattamente ciò che è stato imposto da Cameron all’Ue e sancito lo scorso febbraio tra Londra e i 27, quando, pur di scongiurare il Brexit, era stato detto sì alle condizioni imposte dal premier britannico: il Regno Unito non avrebbe fatto parte di ulteriori integrazioni verso l’unità politica; dell’Ue nel suo complesso (mercato, leggi, accordi…) Londra avrebbe pescato solo ciò che sarebbe andato a proprio vantaggio, di fatto negando il principio di solidarietà sul quale si basa la stessa Ue; il Regno avrebbe trattato diversamente i lavoratori, e dunque i cittadini, Ue da quelli con passaporto inglese, a partire da un diverso sistema di welfare. Chi crede davvero all’Europa unita può soggiacere a queste condizioni oppure è meglio che l’Ue assuma una nuova dimensione plurima a cerchi concentrici, con maggiori o minori gradi di profondità d’integrazione politica?
Agli interrogativi si comincerà probabilmente a rispondere da domani. Per oggi c’è una certezza: chi insegue i populismi alla fine ne resta vittima.