Un Paese ancora più diviso di quello, già spaccato, uscito dalle urne del referendum del 23 giugno 2016 e nel quale il 51,9% dei cittadini britannici votarono per lasciare l’Ue. Cosi Francis Davies, cattolico, docente nelle università britanniche di Birmingham e Oxford
di Silvia
Guzzetti
Agensir
Un Paese ancora più diviso di quello, già spaccato, uscito dalle urne del referendum del 23 giugno 2016 e nel quale il 51,9% dei cittadini britannici votarono per lasciare l’Unione europea. Con industrie, come quella dell’ospitalità e dei trasporti, che vengono gravemente danneggiate da una scelta ormai considerata irreversibile. Così racconta la Gran Bretagna post Brexit Francis Davies, cattolico, docente nelle università britanniche di Birmingham e Oxford, responsabile del Digby Stuart College in quella di Roehampton, da anni consulente del governo britannico.
«Una mia amica, il 24 giugno di sei anni fa, mandò un messaggio ad amici e parenti spiegando quanto fosse dispiaciuta che il Regno Unito avesse abbandonato la Ue – racconta – e oggi almeno la metà di loro non le parla più. Probabilmente aveva dato per scontato che quelli ai quali scriveva fossero filoeuropei ma non era così. Credo comunque che la stessa cosa succeda in tantissime famiglie dove ci si siede a cena, cercando di evitare, per non litigare a tavola, l’argomento Europa. In realtà sono divisioni profonde, di mentalità, che attraversano generazioni, classi sociali, amicizie, rapporti di parentela».
Se il Regno Unito tornasse oggi alle urne, cosa accadrebbe?
Secondo me questa spaccatura si ripresenterebbe ancora più profonda, soprattutto in Inghilterra. Le promesse fatte dal governo conservatore di Boris Johnson, che ha completato l’uscita dalla Ue il 31 gennaio di due anni fa, non sono state mantenute. Sia le élite intellettuali, ma anche i vertici dell’esercito e i più poveri si sentono traditi. Di fatto, il Regno Unito non ha recuperato nessun ruolo di leadership internazionale, così come prometteva il sogno promesso a chi votava “Leave”. Al contrario, la Gran Bretagna ha rovinato i rapporti sia con l’Europa che con gli Stati Uniti, i quali, non faranno mai con noi quell’accordo commerciale sul quale il premier contava per sostituire l’alleanza con la Ue. Non solo, ci siamo ritirati dall’Africa, dallo Zimbabwe e dallo Zambia dove l’economia è ormai gestita dai cinesi. Per non parlare di Hong Kong dove non siamo riusciti a difendere la democrazia. Il nostro potere diplomatico internazionale è inesistente e credo che anche il tentativo del premier di inviare più armi in Ucraina venga reso più difficile dal fatto che i rapporti con gli altri paesi europei, all’interno della Nato, non sono buoni proprio a causa della Brexit.
E nel resto del Paese?
Le cose non vanno meglio anche in quelle zone poverissime del centro e del nord dell’Inghilterra e del Galles nordorientale. Mi riferisco al cosiddetto “Muro Rosso” in cui gli unici investimenti che arrivavano provenivano dall’Unione europea. Boris Johnson ha conquistato queste contee, promettendo posti di lavoro a famiglie disoccupate da tre o quattro generazioni, ma, ancora una volta, le sue sono state soltanto parole. Il governo ha annunciato grandi investimenti e poi ha fatto marcia indietro. Il costo della vita sta aumentando. Alcune industrie sono state danneggiate dalla Brexit a cominciare ad esempio dal settore dell’ospitalità. Mancano infatti camerieri e cuochi e il prezzo dei menù è aumentato. Anche i trasporti sono in sofferenza. Non si trovano più autotrasportatori per le merci così come autisti di taxi. Molti bar e ristoranti di gestione famigliare, che non appartengono alle catene più importanti, rischiano di chiudere i battenti.
Brexit e l’immigrazione. Quali le ripercussioni?
Il ministero degli Interni ha dovuto modificare la legislazione sull’immigrazione dai Paesi della Ue, introdotta all’indomani della Brexit, che prevedeva potessero entrare nel Regno Unito soltanto lavoratori qualificati con uno stipendio garantito di oltre trentamila euro all’anno. Il governo è stato costretto a introdurre visti speciali per polacchi, lituani e rumeni perché, senza di loro, il servizio sanitario e quello dell’assistenza sociale si sarebbero fermati.
E per quanto riguarda il settore dell’istruzione?
Credo che alcune università saranno costrette a chiudere, almeno quelle meno famose e più povere. Il problema principale è che mancano gli studenti, e di conseguenza mancano i fondi. Inoltre, l’interruzione del programma “Erasmus” ha sottratto al Regno Unito più o meno trentamila europei che non sempre sono stati sostituiti con altri studenti provenienti da paesi non europei.
Sul fronte politico, quali sono state le ripercussioni della Brexit?
Purtroppo, dopo il voto sulla Brexit, la destra del partito Tory ha prevalso e, durante la pandemia, alcuni esponenti di questa fazione, hanno addirittura affermato che anziani e disabili potevano essere lasciati morire perché non erano produttivi. Un punto di vista aberrante, che esiste da sempre tra i conservatori, controllato e messo a tacere dagli anni Settanta, ma oggi nuovamente riesploso in tutta la sua pericolosità. Mi riferisco ai cosiddetti “reati d’odio”, cioè alle violenze inflitte a una persona solo perché appartenente a una certa etnia, religione o a una determinate identità sessuale. Reati purtroppo aumentati nel Regno Unito, dopo la Brexit, e poi, come se non bastasse, il partito conservatore ha abolito il training contro il razzismo per deputati e funzionari Tory.
Dunque in conclusione…
In conclusione penso che il Regno Unito abbia affrontato, nella sua storia, momenti difficili, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista politico. Oggi però, per la prima volta, nella nostra società, ci sono divisioni profonde, che attraversano partiti, famiglie e amicizie. E tutto questo si deve solo e soltanto alla nostra uscita dalla Ue.