La situazione sembra sfuggita di mano al premier Cameron, quando manca un mese esatto al 23 giugno, giorno in cui gli elettori britannici saranno chiamati a esprimersi sulla permanenza o meno nella Unione europea
di Stefano COSTALLI
da Londra
Il 23 giugno si sta avvicinando e nessuno in Gran Bretagna sa dire esattamente quale sarà il risultato del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea (Ue). I sondaggi realizzati da vari istituti danno ancora il fronte europeista in vantaggio, ma la differenza tra i due fronti, che a settembre dello scorso anno era di circa dieci punti, si è progressivamente ridotta. Il Financial Times tiene traccia di tutti i principali sondaggi combinandoli tra loro e l’ultima rilevazione vede gli “europeisti” al 46%, i contrari al 43% e gli indecisi al 10%. Con questi numeri, l’ultimo mese di campagna sarà determinante, così come lo sarà il dato sull’affluenza.
Molti personaggi politici e importanti istituzioni si sono schierati a favore della permanenza nell’Ue inclusi il premier David Cameron, il leader laburista Jeremy Corbyn, la portabandiera dello Scottish National Party, Nicola Sturgeon, gran parte del mondo accademico e delle grandi aziende.
Il Fondo monetario internazionale e l’Ocse hanno reso pubblici degli studi in cui provano a calcolare le conseguenze dell’uscita dall’Ue sull’economia inglese e per quanto siano previsioni molto difficili, la maggior parte degli economisti prevede che la Gran Bretagna avrebbe più da perdere che da guadagnare se scegliesse di abbandonare definitivamente l’Unione. Barack Obama ha dichiarato che a suo modo di vedere l’uscita del Regno Unito dall’Ue renderebbe più debole sia Londra, sia l’Europa, e il premier giapponese Shinzo Abe, in visita nella capitale inglese pochi giorni fa, ha detto che in caso di Brexit si aspetterebbe ripercussioni negative sugli investimenti esteri in territorio inglese.
Il fronte che sostiene l’uscita dall’Unione europea sta mostrando notevoli difficoltà a spiegare quale sarebbe il futuro della Gran Bretagna fuori dall’Ue. I suoi portavoce, fra cui Nigel Farage, leader del partito di destra populista Ukip, e importanti esponenti del Partito conservatore di David Cameron puntano il dito contro gli sprechi di Bruxelles e la giungla di regole stringenti e talvolta bizantine provenienti dalle istituzioni comunitarie.
Inoltre, il dibattito si sta sempre più strutturando come una scelta fra i vantaggi economici derivanti dallo status di membro dell’Ue e la possibilità di avere completamente mano libera per limitare l’immigrazione comunitaria.
L’immigrazione è un tema molto sentito in Gran Bretagna: gli immigrati comunitari sono accusati di sfruttare il welfare state inglese più di quanto vi contribuiscano e questo dibattito è stato al centro anche delle ultime elezioni politiche. Lo scorso anno Cameron è riuscito a vincere schiacciando l’Ukip e ottenendo un risultato inatteso da molti anche perché aveva cavalcato l’insofferenza anti-immigrazione e aveva promesso l’indizione del referendum sull’Ue in caso di vittoria.
Con il passare del tempo però la sensazione è che la cosa gli sia sfuggita di mano. Una parte del suo stesso partito non ritiene sufficienti le concessioni ottenute dal premier a Bruxelles sulla possibilità di limitare l’accesso per gli immigrati comunitari al sistema socio-sanitario inglese. Inoltre si sta propagando la percezione che alcuni politici ufficialmente schierati nel campo “europeista” in realtà non ci credano fino in fondo.
In generale è difficile negare che i cittadini inglesi in gran parte non si sentano europei e continuino a pensare all’Europa come a un qualcosa di altro da loro stessi.
Gli scozzesi, al contrario, sono largamente a favore dell’Ue e proprio questo fattore potrebbe giocare un ruolo importante (lo si è visto anche alla luce dei risultati delle recenti elezioni amministrative e per il rinnovo dei parlamento locali di Scozia, Galles e Irlanda del nord).
Nel frattempo, molti stranieri residenti nel Regno Unito guardano con apprensione e un certo fastidio al 23 giugno, soprattutto chi lavora in posizioni di rilievo e sente di contribuire notevolmente ai conti dello Stato.