Il Presidente della Cei in occasione della Giornata mondiale: «Dobbiamo combattere il virus dell’individualismo, che ci rende incapaci di disegnare un futuro degno per tutti»
intervista a cura di Raffaele
Iaria
«Verso un “noi” sempre più grande» è il titolo scelto da papa Francesco per il suo messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato che si celebrerà domenica 26 settembre. Il richiamo evidente è all’enciclica Fratelli tutti, perché alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi” universale. Il Papa invita a «camminare insieme verso un noi sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso».
Il messaggio di papa Francesco è un invito rivolto a tutti. Cosa significa per la Chiesa italiana? «È un appello a pensarci sempre più come famiglia umana, vedendo in ciascuno – soprattutto negli ultimi e nei bisognosi – un fratello. La pandemia ci ha ricordato, in modo inequivocabile, che nessuno si salva da solo e che, come dice il Papa, siamo tutti sulla stessa barca – risponde il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana -. Dobbiamo fare tesoro di quello che questa terribile prova che stiamo ancora vivendo ci ha insegnato, impegnandoci a ogni livello per combattere il virus dell’individualismo, che genera processi di disgregazione e ci rende incapaci di disegnare un futuro degno per tutti».
Ogni uomo e donna, dovunque si trovi, è membro della società. Questo non sempre è realizzato anche in Italia. Come accogliere nella Chiesa per non escludere nessuno?
Innanzitutto mettendo al centro la persona umana, che è creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, a prescindere dalla sua condizione sociale, dalla provenienza e dal colore della pelle. In secondo luogo, sconfiggendo la paura che paralizza, fa perdere la speranza, porta a stare sulla difensiva: avere paura significa chiudersi, alzare muri, togliere terreno a quel “noi sempre più grande” di cui parla il Papa. Infine, bisogna ricordare che l’inclusione non è solo una questione sociale, progettuale, educativa ma è un fatto che affonda le sue radici nella mistica e nell’umanesimo cristiano. Nessuno può dirsi cristiano se esclude il proprio fratello.
Che vuol dire una Chiesa che esce all’incontro senza pregiudizi e paure?
È una Chiesa del Vangelo sine glossa, che è capace di uscire da se stessa, dalle proprie zone di comfort per andare a curare chi è ferito, a cercare chi è smarrito, a sorreggere chi ha bisogno di aiuto. Proprio come il Buon Samaritano che non ha avuto paura di avvicinarsi all’altro, di chinarsi su di lui e di farsi prossimo al giudeo ferito, andando oltre qualsiasi barriera storica e culturale. Gesù ci invita a fare lo stesso, a superare la diffidenza per farci vicini a chiunque si trovi in difficoltà.
Come essere vicini a chi oggi soffre a causa di guerra e povertà che arrivano sulle nostre coste?
Dobbiamo imparare a riconoscere in chi arriva sulle nostre coste, a volte dopo essere stato strappato alla morte in mare, il volto di Cristo. Bisogna scrollarsi di dosso il pregiudizio che porta a etichettare il migrante come un problema o, peggio ancora, un nemico che viene a toglierci qualcosa, un usurpatore, un’insidia. Chi scappa dalla guerra, dalla fame, dalla violenza è un fratello e sulla nostra capacità di amarlo, accoglierlo, proteggerlo saremo giudicati. Tra le opere di giustizia infatti vi è anche quella dell’accoglienza nei confronti degli stranieri.
La Chiesa italiana è impegnata anche sul fronte dei “corridoi umanitari”…
Tra gli ultimi corridoi umanitari della Cei sono giunti in Italia 43 profughi dal Niger. Qualche mese fa altre famiglie sono giunte dalla Giordania, in fuga dalla martoriata Siria, dall’Iraq e dal Pakistan dove hanno subito una feroce persecuzione religiosa in quanto cristiani convertiti. Sono solo le ultime, in ordine di tempo, di una serie di operazioni umanitarie che la Chiesa che è in Italia, insieme al Governo e all’Unhcr, ha voluto assicurare in questi anni a tante persone e famiglie che si trovano in condizione di particolare vulnerabilità. Attraverso il lavoro della Chiesa Italiana sul territorio è stato possibile trasferire in sicurezza oltre mille profughi dalla Turchia, Giordania, Etiopia e Niger. Può sembrare una goccia in mezzo al mare, di fronte al grande bisogno di sicurezza che si registra in tutto il mondo, ma si tratta di uno sforzo capace di cambiare il paradigma dell’immigrazione nel nostro Paese e in Europa.
Come formare i sacerdoti su questi temi?
Don Primo Mazzolari, grande sacerdote del Novecento, in uno dei suoi scritti, ricordava che «si cerca per la Chiesa un uomo capace di vivere insieme agli altri, di lavorare insieme, di piange-re insieme, di ridere insieme, di amare insieme, di sognare insieme». “Insieme” è la parola chiave, l’orizzonte che deve guidare il pensiero e l’azione di ogni cristiano e, dunque, dei sacerdoti. «Sogniamo – dice papa Francesco nell’Enciclica Fratelli tutti – come un’unica umanità̀, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli». Il sacerdote per primo deve essere capace di condividere, di stare con gli altri, di mettere se stesso a servizio del prossimo. Non c’è evangelizzazione senza fraternità.
Lei recentemente ha inviato un messaggio, attraverso Rai Italia, ai nostri emigrati italiani: co-me la Chiesa segue questa «porzione di popolo di Dio»?
Come una mamma che ha cura dei suoi figli, an-che di quelli che abitano lontano, così la Chiesa è vicina ai tanti italiani – circa 5,5 milioni – che vivo-no all’estero attraverso i missionari, i religiosi e le religiose, i laici che dedicano il loro tempo e le loro energie nelle Missioni Cattoliche di Lingua Italiana coordinati dalla Fondazione Migrantes. La cura di ogni persona migrante, qualsiasi sia la direzione del suo andare e il passaporto in suo possesso, è sempre doverosa.