Venti morti, nove gli italiani: è il gravissimo bilancio dell'attentato di Dacca, con cui «il mondo ha scoperto questo Paese», commenta amaramente un missionario del Pime. La condanna del Papa e l'appello della Chiesa locale alle istituzioni

di Daniele ROCCHI

Attentato Dacca

«Atti barbari, offese contro Dio e l’umanità»: sono le parole con cui papa Francesco ha condannato la strage di Dacca, in Bangladesh. Un commando terrorista dell’Isis, la sera del 1° luglio, è penetrato nel ristorante “Holey Artisan Bakery”, distante solo poche centinaia di metri dalle rappresentanze estere site a Gulshan, il quartiere diplomatico della capitale del Bangladesh. Quasi un affronto alle forze di sicurezza locali che quotidianamente presidiano la zona, ritenuta tra le più protette della città. Venti i morti, di cui 9 italiani.

Sconcertanti le testimonianze di chi è sopravvissuto alla mattanza, condotta anche a colpi di machete, prima che questa finisse sotto i colpi delle forze speciali dell’esercito. Quattro ore di spari, esplosioni e raffiche, prima di dichiarare la fine dell’emergenza e cominciare la triste conta dei morti e dei sopravvissuti. «Una violenza insensata perpetrata contro vittime innocenti», si legge nel telegramma di papa Francesco indirizzato all’arcidiocesi di Dacca, attraverso il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin.

A seguire in tv le fasi della trattativa con i terroristi e poi del blitz delle forze speciali all’“Holey Artisan Bakery” anche l’arcivescovo di Dacca, monsignor Patrick D’Rozario, che in una dichiarazione resa al Sir ha parlato di «intero Paese sotto shock. Mentre seguivo le notizie in tv pregavo per coloro che erano stati sequestrati nel locale. Siamo scioccati perché è la prima volta che un fatto simile, estraneo alla nostra cultura, accade nella storia del Paese». Il presule ha espresso la sua vicinanza e preghiera alle vittime e ai loro familiari e ha esortato i leader del Paese ad «adottare ogni misura possibile a loro disposizione per proteggere tutte le persone senza distinzione di nazionalità, casta e credo».

«Oggi il mondo si accorge del Bangladesh – è l’amaro commento di un missionario del Pime, anonimo per motivi di sicurezza -, un Paese con poche risorse e per questo lasciato ai margini della comunità internazionale. Triste dirlo, ma purtroppo è così». Le sirene dello Stato islamico si sentono forte anche in Bangladesh come testimonia l’arruolamento di diversi bengalesi in Siria nelle milizie del Califfo, e ciò nonostante il Governo punisca il reclutamento di jihadisti. Il Paese asiatico è la terza economia nell’Asia del Sud, dopo India e Pakistan. Con i suoi 171 milioni di abitanti (90% musulmani) è il terzo Paese più popoloso a maggioranza musulmana. Quasi inevitabile una deriva integralista, come testimoniano gli attacchi alle minoranze religiose, indù, buddiste e cristiane. E adesso anche i cittadini stranieri sono entrati nel mirino della fazione Jamaat-e-Islami, affiliata all’Isis, che prontamente il 1° luglio ha rivendicato la strage.

La filiale bengalese dell’Isis si è macchiata di oltre venti omicidi nel Paese nel giro di un anno e mezzo. Si alza il livello della violenza. «Siamo davanti ad un attacco pianificato e organizzato ben diverso da quelli avvenuti in passato che sembravano, per modalità, condotti da piccoli gruppi di estremisti poco organizzati – spiega la fonte del Pime -. La sensazione è che questa strage sia avvenuta anche con un concorso esterno. Questo attentato cambia la situazione della sicurezza anche perché ha colpito la zona delle ambasciate, quella reputata più protetta. C’è da essere preoccupati».

Questi attacchi danno visibilità e risonanza mediatica ai terroristi, come accadde per l’assassinio del cooperante italiano Cesare Tavella il 28 settembre 2015, oppure per il ferimento del missionario padre Piero Parolari, il 18 novembre 2015 a Dinajpur, a 400 km da Dacca:

«Il ristorante attaccato solitamente cucina anche cibo italiano e la presenza di nostri connazionali era prevedibile, così come quella di tanti altri stranieri. Colpendo gente straniera i terroristi si sono assicurati una risonanza mediatica che non avrebbero avuto se avessero fatto strage solo di locali come solitamente accade nel Paese. Proprio di recente un capo della polizia locale era stato ucciso in un agguato, ultimo di una lunga serie di attentati contro persone reputate nemiche e contro personalità delle minoranze religiose».

«Dopo l’agguato a padre Parolari i nostri missionari operanti nel nord sono sotto scorta», dice la fonte del Pime, che ribadisce: «Le minoranze religiose sono da tempo sotto pressione. Due giorni fa hanno colpito un prete indù. Lo scorso dicembre le forze di polizia hanno sventato un attentato contro chiese cattoliche e cristiane della capitale». «Io e i miei confratelli – conclude la fonte – siamo concordi nel dire che questo attacco è anche una reazione all’arresto da parte della polizia di centinaia di estremisti islamici, e la loro dimostrazione che sono ancora attivi e operativi».

Con la strage di Dacca, adesso la preoccupazione sale. Ne è certo anche padre Dilip Costa, direttore del Pontificie Opere Missionarie in Bangladesh: «La situazione che viviamo è davvero difficile. È vero che la maggior parte dei musulmani condanna atti come questo e che i gruppi radicali sono minoritari». Ma non basta. «Il governo dice di fare del suo meglio, ma evidentemente non è abbastanza per fermarli. Tutte le minoranze vivono in uno stato di paura e non sappiamo dove questa precaria situazione condurrà la nazione».

 

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