Quarant’anni fa le Br assassinavano il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Un uomo buono, mite, figura esemplare di laico cristiano, per 9 anni presidente dell’Azione cattolica

di Pino NARDI

Vittorio Bachelet Paolo VI
Paolo VI con Vittorio Bachelet all'epoca in cui quest'ultimo era presidente dell'Azione Cattolica (archivio Azione Cattolica Italiana)

Sono trascorsi 40 anni dal 12 febbraio 1980. Quel giorno, sulle scale della facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, veniva assassinato Vittorio Bachelet. Un uomo buono, mite. Un martire della democrazia, lo ha definito Rosy Bindi, all’epoca sua assistente, a pochi passi da lui quando due brigatisti rossi, Annalaura Braghetti e Bruno Seghetti, lo uccisero con 7 colpi di pistola. Dal 1976 Bachelet era vicepresidente del Csm (Il ricordo di Sergio Mattarella). Un obiettivo preciso nella follia terroristica non solo per il suo ruolo al vertice della magistratura, ma anche per la sua storia personale.

Laico cristiano esemplare, impegnato nella Chiesa e nel mondo, testimoniando il Vangelo e la speranza in una stagione difficile di rinnovamento della società. Lo stesso imprinting di un altro testimone barbaramente assassinato pochi giorni prima (il 6 gennaio) a Palermo: Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia. Entrambi cresciuti nell’Azione cattolica, che Vittorio Bachelet guiderà negli anni del Concilio e in quelli successivi: dal 1964 al 1973 sarà il presidente del nuovo statuto, della cosiddetta scelta religiosa, di un’Azione cattolica che incarnava le novità conciliari, sotto la guida attenta di san Paolo VI, con un rapporto paterno con il presidente di Ac.

Bachelet, grande amico di Aldo Moro

Ma Bachelet, oltre all’impegno ecclesiale ai massimi livelli di responsabilità, è stato un grande esempio di uomo impegnato in politica, al servizio delle istituzioni. Militante in quella Democrazia cristiana che si ispirava ad Aldo Moro, alla sua alta visione politica, di grande respiro, che ha contribuito in modo determinante alla realizzazione della democrazia in Italia. Non è certo un caso che le menti migliori della cultura cattolico-democratica (Moro, Mattarella, Bachelet e poi Roberto Ruffilli) siano state le più colpite.

«Io credo che dobbiamo guardare a questo futuro con fiducia, e anche con speranza – aveva detto Bachelet nel suo intervento all’Assemblea dell’Ac del 1973, lasciando la presidenza – anche se siamo abbastanza sicuri che le difficoltà che ci saranno non saranno forse granché minori di quelle che abbiamo avuto fino a ora. Ma dobbiamo guardare con fiducia, senza lasciarci prendere da un atteggiamento che qualche volta rischia di morderci il cuore. Per costruire ci vuole la speranza. In fondo penso che dovremmo riflettere molto sulle grandi parole che diceva papa Giovanni all’inizio del Concilio: “Ci sono quelli che vedono sempre che tutto va male, e invece noi pensiamo che ci siano tante cose valide, positive”. Noi dobbiamo tenerlo fermo come atteggiamento di speranza, che ci consente di vincere anche queste ombre, di vincere anche questi rischi, di vincere il male con il bene». Parole coraggiose, in anni bui del Paese e difficili in una Chiesa italiana che stava vivendo in modo contraddittorio la stagione post-conciliare.

E come non ricordare oggi le parole, semplici e dirompenti, del figlio Giovanni, allora 25enne, nella sua preghiera dei fedeli durante i funerali del padre? «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

In una stagione come quella di oggi, fatta di volgarità, chiusure sovraniste e demagogie populiste, ricordare Bachelet è anche un impegno a guardare l’esempio di uomini come lui, alla loro testimonianza fino a dare la propria vita, come modelli di una politica e di una presenza ecclesiale con un di più che forse si è smarrito.

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