Il capitolo “licenziamenti” nella riforma del mercato dell’occupazione
di Nicola SALVAGNIN
La parola magica attorno alla quale il governo, le forze politiche e quelle sindacali, i mass media e buona parte dei cittadini italiani hanno proposto, discusso, litigato nelle ultime settimane, è stata “reintegro”. Cioè quel che prevede l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento individuale senza giusta causa, nelle aziende con più di 15 assunti. La giusta causa la valutava il giudice; se non la riscontrava, il lavoratore aveva diritto ad essere reintegrato nel suo posto di lavoro. Aveva facoltà di chiedere un indennizzo economico, se preferiva andarsene. Parliamo al passato perché si presume che il prossimo futuro non sarà più così.
Ecco: in verità la parola magica doveva essere un’altra. Indennizzo. Perché è su questo che verte la riforma Fornero-Monti in tema di licenziamenti. Ora l’indennizzo è sempre possibile, e la decisione spetta al giudice del lavoro. Cominciamo dal licenziamento disciplinare. Il lavoratore lo può impugnare, l’azienda deve dimostrare la giusta causa o il giustificato motivo che l’hanno spinta a tale misura. Se non lo fa, e cioè se il fatto contestato non c’è stato o non l’ha commesso il lavoratore in questione; o infine se il fatto contestato aveva un’altra procedura di punizione prevista dai contratti collettivi, allora il giudice annulla il licenziamento e ordina il reintegro del lavoratore. Ma solo in questi casi.
Altrimenti il giudice – rilevando la mancanza di giusta causa ma comunque riscontrando la fine del feeling tra le parti – dichiara risolto il contratto di lavoro tra le parti e condanna l’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria variabile tra i 12 e i 24 mesi di stipendio mensile.
Settimane di acerrime discussioni hanno infine partorito questa disciplina del licenziamento economico (cioè dovuto alla difficoltà o all’impossibilità dell’azienda di pagare quello stipendio). Se impugnato, scatta il reintegro solo nel caso in cui il giudice riscontri la manifesta insussistenza di un giustificato motivo per licenziare. Detta in parole povere: se dietro al licenziamento economico si nasconde una cacciata per questioni disciplinari o, peggio, discriminatori (in quest’ultimo caso il licenziamento è sempre nullo e il reintegro obbligatorio). Se non riscontra la “manifesta insussistenza” ma solo che il licenziamento pare azzardato, eccessivo, allora via libera all’indennizzo. Il lavoratore comunque se ne va, ma si porta in tasca da 12 a 24 mensilità di risarcimento.
Si dirà: i tribunali esploderanno di cause. Già oggi… Ecco perché è stato previsto lo strumento della conciliazione presso le Direzioni territoriali del lavoro (Dtl). A queste l’azienda comunicherà la sua intenzione di licenziare Tizio. Entrambe le parti saranno convocate dalla Dtl entro sette giorni, ed entro venti si dovrà arrivare ad una conclusione (salvo proroghe chieste da entrambe le parti). Se c’è accordo, si fissa il quantum del risarcimento economico. Se non c’è, via libera al licenziamento e al possibile ricorso al giudice che però guarderà anche il comportamento delle parti in sede di conciliazione. Anche per scoraggiare cause temerarie.
Infine la tempistica. La riforma prevede una corsia privilegiata per le cause di lavoro, che oggi durano in media 18 mesi (un’eternità) e attualmente ne pendono 211mila…
Insomma, il meccanismo appare abbastanza equo. È vero: ripristina il licenziamento individuale senza reintegro. Ma su questo bisogna dire qualche verità. La prima: già oggi milioni di lavoratori (quelli assunti in aziende con meno di 15 addetti, quelli “flessibili”), non ce l’avevano. Quindi delle due l’una: o reintegro generalizzato per tutti, o per nessuno. Si è scelto il “nessuno” anche perché mai la legge ha detto ciò che invece è emerso dall’applicazione che è stata data all’art.18 nel corso di questi 42 anni.
Lo Statuto dei lavoratori infatti prevede il licenziamento individuale “salvo…”. Nella pratica, i giudici hanno costantemente rilevato la mancanza di giusta causa, trasformando in pratica la licenziabilità individuale in illicenziabilità. Una forzatura molto ideologica, che ha quasi sempre dimenticato di valutare con attenzione caso per caso. E la casistica è piena di situazioni incredibili, sempre giudicate con lo stesso metro. Creando così quella rigidità di sistema – fonte pure di ingiustizia – che la riforma Fornero-Monti ha inteso ora cancellare.