Ivana Pais, docente di Sociologia economica alla Cattolica di Milano, riflette su come andare oltre il possesso e l’accumulo
a cura di Gemma DELL’ACQUA
A pochi giorni dal grande evento “Milano sharing city”, in cui è stata presentata la seconda mappatura nazionale delle piattaforme di condivisione, ascoltiamo l’opinione di Ivana Pais, professore associato di Sociologia economica all’Università Cattolica di Milano.
Come possiamo definire la sharing economy?
Do una doppia definizione: il ground zero del capitalismo, ma anche l’economia della fiducia.
Perché un concetto così ampiamente condivisibile sulla carta e così democraticamente apprezzabile trova invece difficoltà nel suo sviluppo?
La principale difficoltà risiede nella scarsa conoscenza delle possibilità offerte dall’economia della collaborazione, dalla scarsa cultura digitale e dalla mancanza di fiducia da parte del mercato. Molte aziende e molti utenti privati sono ancora restii a mettere in comune i loro beni privati. Di conseguenza, al di là dei vuoti o delle incertezze normative, l’altro grave limite al suo sviluppo è la difficoltà a intercettare finanziamenti pubblici e privati, nonché la diffidenza dei grandi investitori.
Gli economisti definiscono la sharing economy un riaggregatore sociale, un modello di ridistribuzione sociale della capacità di micro imprenditorialità. E i sociologi dell’economia, invece?
Noi preferiamo definirla come la possibilità di risocializzazione dell’economia. Queste pratiche hanno poi un impatto anche in termini di attivazione individuale. Consentono di rimettere in circolo beni e competenze che erano escluse dal mercato e – nelle pratiche più virtuose -, lo fanno veicolando lo scambio attraverso la creazione di legami sociali. Ma, ancora meglio, mi piace definirla l’eredità positiva della crisi. Direi che l’economia della condivisione è forse l’unica idea innovativa emersa dopo la crisi della bolla speculativa del 2008, che aveva costretto l’intero sistema politico sociale economico a rimettersi in discussione.