Da una parte qualcuno sostiene che si debba garantire a tutti un minimo vitale per soddisfare i propri bisogni, dall’altra parte si richiede che ad ogni forma di lavoro sia dato un livello dignitoso di garanzie
Andrea
CASAVECCHIA
Pare che il dibattito sulle tutele del lavoro stia cambiando gli argomenti delle questioni: perde quota il binomio stabilità – flessibilità, mentre acquista interesse il binomio garanzia di un reddito di cittadinanza e reddito da lavoro. Prima di esprimere una posizione tra le due opinioni, sembra opportuno evidenziare l’importanza dello spostamento, perché implica cambiamenti nella struttura sociale.
Il primo binomio mette al centro il lavoro: da una parte si posizionano i sostenitori della tutela di un “posto” preferibilmente fisso, a tempo indeterminato, perché ogni lavoratore possa godere attraverso il suo operato un reddito che gli permetta di soddisfare i propri bisogni e i bisogni della propria famiglia. Dall’altra parte si collocano i sostenitori della flessibilità che sottolineano l’importanza per l’azienda di poter aumentare o diminuire la manodopera alle sue dipendenze per rispondere alle esigenze del mercato. Dentro questo binomio il valore del lavoro è soprattutto determinato in base al tempo passato sulla postazione che sia quella di una catena di montaggio o di una scrivania, dietro la cassa di un supermercato o il bancone di un bar. Una forte quota dell’occupazione era assorbita dalla domanda delle grandi fabbriche e dagli uffici pubblici: impiegati e operai costituivano la maggioranza delle forze lavoro, e sulle loro tipologie contrattuali si ispiravano le altre. Poi c’erano dirigenti e liberi professionisti che completavano il quadro. Bisogna riconoscere che questo sistema, in cui una grande porzione della popolazione attiva lavorava, ha garantito un buon livello di benessere nella società dei consumi di massa.
Il secondo binomio: reddito di cittadinanza e reddito da lavoro sposta il dibattito su una questione differente. Da una parte qualcuno sostiene che si debba garantire a tutti un minimo vitale per soddisfare i propri bisogni, dall’altra parte si richiede che ad ogni forma di lavoro sia dato un livello dignitoso di garanzie e tutele. Dietro le differenti posizioni da tutelare, c’è l’emergere di un sistema differente nel quale l’introduzione di continue innovazioni tecnologiche ha ridotto l’esigenza di grandi numeri di dipendenti nelle strutture che prima assorbivano la maggioranza della forza lavoro, ora sostituibile da robot connessi in rete. Si tratta di comprendere se le due posizioni sono una risposta possibile all’espulsione di un forte gruppo di lavoratori dal mondo produttivo.
Se però lavorare significa contribuire a costruire società, indirizzare le persone a riscuotere un minimo vitale appare un modo per continuare a escluderle. D’altro canto appare evidente che dentro un sistema dove le forme lavorative appaiono più volubili e a volte diventano attività, non è sufficiente garantire un lavoro dignitosamente retribuito per un tempo più o meno congruo. Molto probabilmente accanto alla costruzioni di tutele contrattuali andranno incentivati investimenti per generare nuove forme di lavoro e allo stesso tempo bisognerebbe bilanciare una garanzia del minimo vitale con le opportunità di intraprendere una nuova occupazione.