Molti i dubbi sulla concreta applicabilità delle decisioni emerse dal Consiglio europeo del 17-18 marzo. All’Europa manca ancora una reale e complessiva strategia per affrontare l’emergenza

di Gianni BORSA

Profughi

Quando la “realpolitik” prende il posto della politica si arriva a risultati apparentemente equilibrati, oltre che necessari, benché lontani anni luce da soluzioni ottimali e auspicabili. Le decisioni emerse dal Consiglio europeo del 17-18 marzo si inseriscono a pieno titolo in questa direttrice. L’Europa comunitaria, pressata dall’esterno da flussi migratori ingenti (benché tutt’altro che ingestibili) e all’interno dagli egoismi nazionali, stringe la mano alla Turchia e, secondo la formula dell’“uno a uno”, rispedisce i migranti giunti irregolarmente in Grecia in cambio di soldi e aperture di credito al governo di Ankara che negli ultimi anni non ha certo dato prova di democrazia, mettendo in serio dubbio i presupposti dello Stato di diritto.

I risultati del Consiglio europeo svoltosi a Bruxelles (giunti nelle ore in cui erano in atto azioni antiterrorismo in quartieri della capitale belga) prevedono che i siriani che giungeranno in Grecia saranno sottoposti a riconoscimento e rispediti in Turchia nel caso non dimostrino di avere diritto a una procedura di asilo. In cambio la Turchia trasferirà dai campi profughi, in cui ospita 2,5 milioni di siriani, all’Ue altrettanti rifugiati. La dichiarazione finale del summit, controfirmata dai 28 Stati Ue e dal governo turco, vorrebbe essere rassicurante: «Tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia, nel pieno rispetto del diritto Ue e internazionale, escludendo pertanto qualsiasi forma di espulsione collettiva. Tutti i migranti saranno protetti in conformità delle pertinenti norme internazionali e nel rispetto del principio di non-respingimento». Per ogni «siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’Ue».

Si tratta di un accordo chiaro ma altrettanto complesso da gestire sul campo, soprattutto in considerazione del fatto che di mezzo ci sono persone – bambini, donne, adulti, anziani – in condizioni di estrema fragilità, in fuga dalla guerra e dalla fame.

La Turchia, che in effetti si trova a sua volta in difficoltà per il gran numero di rifugiati presenti entro i suoi confini e con l’esercito dell’Isis alle porte, in cambio ottiene davvero molto. Anzitutto una credibilità internazionale, tutta da comprovare. Quindi 6 miliardi di finanziamenti – 3 subito, 3 entro il 2018 – promessi per affrontare l’emergenza-profughi; inoltre viene garantito ad Ankara la liberalizzazione dei visti nel giro di pochi mesi e l’apertura del Capitolo 33 (Bilancio) dei negoziati per l’adesione, dando così per scontato che la Turchia sia nelle condizioni di fare dei passi, seppur timidi, verso l’Ue.

Prima di lasciare il summit il premier turco Ahmet Davutoglu ha parlato di «giornata storica», di «comune destino» e di «eguali valori» tra Turchia e Unione europea, mentre al suo fianco il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, ha smorzato i toni, affermando che si tratta di «un accordo accettabile per tutti», «non una soluzione magica», un esito «forse non storico ma utile». Tusk ha poi aggiunto alcuni elementi che rilanciano l’intera questione migratoria e le modalità con le quali andrebbe affrontata su scala comunitaria, al di là della “toppa” posta mediante l’accordo con la Turchia, definito «solo un primo pilastro di una strategia complessiva dell’Ue sul fronte migratorio, che deve anche comprendere il rafforzamento delle frontiere esterne, la chiusura della rotta balcanica, i ricollocamenti e il ritorno a Schengen».

Ma per una vera ed efficace “strategia” non vanno trascurati altri elementi essenziali. Anzitutto la necessità di far fronte all’emergenza secondo il principio di solidarietà: ovvero tutti i Paesi Ue devono sentirsi chiamati in causa, dimostrandosi disponibili ad accogliere richiedenti asilo giunti sullo coste o alle frontiere dell’Unione; ciò comporta di fatto una riscrittura degli accordi Dublino III per le procedure d’asilo e, non di meno, l’impegno a non alzare muri o fili spinati, come avvenuto durante le pagine più buie della storia dell’umanità (durante il summit due Paesi, Ungheria e Slovacchia, ancora una volta si sono detti non disponibili ad aiutare gli Stati direttamente esposti agli arrivi dei migranti). In secondo luogo si tratta di avviare accordi bilaterali tra Ue e gli altri Paesi terzi nei quali si generano le migrazioni: si può andare a nozze con la Turchia e dimenticare, giusto per fare un esempio, la Libia? Inoltre, come ha ricordato il premier italiano Matteo Renzi, è necessario tornare a investire nella cooperazione internazionale, che favorisca lo sviluppo dei Paesi poveri così che ogni persona, ogni popolo, possa vivere dignitosamente nella sua terra, senza affidarsi a barconi o trafficanti. Infine, ma non ultimo, resta il capitolo della creazione di vie legali per la migrazione regolare: della quale – non lo si può dimenticare – l’Europa “invecchiata” ha bisogno.

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