La pandemia, che impegna soprattutto gli infettivologi, può rallentare l’accesso alle cure e il monitoraggio delle persone con Hiv. Laura Rancilio: «Durante il primo lockdown molti Centri italiani hanno ridimensionato gli accessi, rimandato gli appuntamenti e anche l’offerta del test è stata ridotta»
di Stefania
CECCHETTI
Con i riflettori tutti accesi sul Coronavirus, per fortuna c’è la Giornata mondiale della lotta all’Aids (1 dicembre) a ricordarci che esiste un altro virus nei confronti del quale non possiamo abbassare la guardia. E per il quale un vaccino non è mai stato trovato.
Esistono però delle cure efficaci, a patto che siano seguite con costanza e scrupolo. Cosa che è diventata più difficile proprio a causa del Coronavirus, che assorbe tanta parte delle energie del sistema sanitario. Come ci spiega Laura Rancilio, medico, responsabile delle aree Aids, Dipendenze e Salute mentale di Caritas ambrosiana e rappresentante di Caritas Italiana nella sezione dedicata alla lotta all’Aids del Comitato tecnico-sanitario del Ministero della Salute: «La forte pressione provocata dalla pandemia – afferma – ha comportato una limitazione dell’accesso ai servizi di cura e assistenza presso i reparti di malattie infettive per le persone che vivono con Hiv. Gran parte dei Centri italiani, durante i mesi primaverili di lockdown, ha ridotto drasticamente gli accessi e rimandato gli appuntamenti. Molti servizi di offerta del test Hiv sono stati ridotti. In questa recrudescenza della pandemia vediamo nuovamente il rischio che vengano totalmente sospesi questi servizi».
«È necessario invece – spiega Rancilio – che vengano mantenuti spazi dedicati perché le persone con Hiv possano accedere alle visite col proprio medico infettivologo, in caso contrario non sarà possibile monitorare le se terapie continuano a essere efficaci e seguite con il dovuto scrupolo. Rischiamo di vanificare i risultati ottenuti in anni di lavoro per favorire l’accesso alle terapie, con pazienti che possono aggravarsi, impattando significativamente sui costi del Ssn, e tornare ad avere una carica virale in grado di infettare altre persone».
Già, perché i dati sulla diffusione del virus parlano di un trend positivo che non va interrotto. Proprio in questi giorni è uscito il notiziario dell’Istituto superiore di Sanità con i dati relativi allo scorso anno: «Nel 2019 – illustra Rancilio – sono state segnalate 2.531 nuove diagnosi di infezione da Hiv. È dal 2012 che si osserva una diminuzione costante delle nuove diagnosi, che appare più evidente nel 2018 e 2019. In particolare, l’Italia con 4,2 casi per 100.000 residenti, in termini di incidenza delle nuove diagnosi si colloca al di sotto della media dei Paesi dell’Unione Europea (4,7 casi per 100.000 residenti)». Di contro, però, dal 2017 aumenta la quota di persone a cui viene diagnosticata tardivamente l’infezione da Hiv: «Si tratta per lo più di persone in fase clinicamente avanzata, con bassi valori di linfociti CD4 o presenza di sintomi – precisa Rancilio -. Nel 2019 il 58,7% delle persone con una nuova diagnosi di infezione da Hiv è stato diagnosticato tardivamente».
Dunque, in epoca di Coronavirus, è d’obbligo mantenere alta l’attenzione, «perché questa situazione potrebbe proseguire molto a lungo – sottolinea Rancilio – comportando gravi danni alle persone con Hiv, e problemi sociali ed economici. Lo hanno segnalato le Agenzie di salute globali, Oms e Unaids, il Parlamento Europeo e la Commissione Europea, che paventano il forte rischio di un fallimento degli obiettivi di sviluppo Sdg (Sustainable development goals) del 2030 ed evidenziano un passo indietro rispetto al target 90-90-90: che cioè almeno il 90% delle persone che in un Paese hanno l’infezione sappiano di averla perché hanno fatto il test, che il 90% che sanno di esserlo siano messe in terapia con antiretrovirali e che il 90% delle persone in terapia siano a carica virale zero. Da qui il richiamo a tutti i Governi sull’importanza di garantire i servizi Hiv di cura e prevenzione anche in questo difficile momento».