La testimonianza di alcuni universitaria che nei mesi estivi hanno vissuto un'esperienza di volontariato che ha segnato la loro vita
di Luisa BOVE
Redazione
Tanti giovani hanno deciso di "sacrificare" la loro estate per vivere un’esperienza di servizio nei Paesi poveri. Tornando a casa non si sono limitati a raccontare ciò che hanno fatto, ma quello che hanno visto: la carica di umanità e di dignità ritrovata sui volti di tanta gente.
«Il rischio nell’università di oggi», ammette Andrea Bellieni di ritorno dall’Uganda, «è di vivere una vita scandita dal calendario accademico». Invece dovrebbe essere «un tempo di crescita e di formazione soprattutto umana». Per questo l’estate scorsa ha raccolto la sfida ed è partito per Kampala come studente al quarto anno di Medicina. «L’esperienza di tre settimane proposta del CeSi» ha rappresentato per lui un’occasione di «vita vissuta e non solo studiata sui libri». Andrea lavorava come volontario in ospedale dalle 8 del mattino al tardo pomeriggio e grazie al personale «altamente qualificato» è stato sempre accompagnato e istruito sulle malattie locali e sui casi da affrontare quotidianamente. L’impatto è stato «duro» soprattutto per «la mancanza di mezzi e di fondi» e così la pratica diventa fondamentale, al di là del «proprio bagaglio che è ancora la medicina delle definizioni». Di fronte a miseria, fame, malattie, condizioni precarie di vita si è reso conto che «esiste anche la voglia di lottare, la fiducia, la speranza, la fede e i sacrifici per andare avanti».
Anche per Sara Caputo, 22 anni, di Brindisi ma trasferita a Milano dove ha studiato Economia e ora è iscritta al primo anno di Management per l’impresa, l’impatto è stato forte. «Non ho visto l’India dei documentari e delle guide turistiche», spiega. Catapultata in un Paese di «povertà e degrado», si è lasciata alle spalle troppo rapidamente il ricco Occidente. Mentre viaggiava guardava fuori dal finestrino e vedeva donne sedute per terra che tessevano avvolte nei loro sari o bambini scalzi e svestiti che camminavano nel fango. Gran parte della popolazione vive sotto la soglia della povertà eppure «ci hanno accolto con il preciso intento di farci sentire a casa e così è stato». «Ho ascoltato storie difficili e coraggiose, esistenze basate sul lavoro duro che si accontentano di 60 rupie al giorno (un euro circa) e hanno anche la forza di donare parte dei loro guadagni». La «formula vincente» per loro è il microcredito, dice Sara, «che permette alle famiglie di costituire micro business», unito ai corsi di scrittura, nozioni di sanità e igiene.
Non è stata una scelta facile per Danilo Pagliari, al quinto anno di Medicina, decidere di partire sapendo «a cosa andavo incontro». Destinazione Panama, insieme a Biagio e a Ilaria. Sono arrivati a Sambù, un villaggio sperduto nella giungla e al confine con la Colombia, che hanno raggiunto dopo un viaggio estenuante e la navigazione su una specie di canoa. A seguirli nella loro esperienza di volontariato c’era don Hector, un sacerdote panamense che ha studiato a Roma e parlava bene l’italiano. «Grazie alla presenza della Chiesa, alle sue attività giornaliere e alla sua continua opera di evangelizzazione – dice Danilo – a Sambù si annuncia che c’è una maniera diversa di vivere, si condividono valori, si fa crescere un’etica dei comportamenti, del lavoro e della concezione dell’uomo e della donna». Danilo ha capito che fare il medico «è come una vocazione» e che «non è necessario spostarsi nell’altra parte del mondo per trovare persone sofferenti» perché «anche dalle nostre parti si può vivere la propria missione».
I 20 giorni trascorsi in Brasile hanno lasciato in segno in Carlotta Tedesco al primo anno di Economia e in Sabrina D’Angelo al secondo di Infermieristica. «Abbiamo avuto la possibilità di conoscere un popolo eccezionale che, nonostante tutto, cammina a testa alta con la dignità dipinta sul volto». La loro esperienza di volontariato è passata dal bairro Guadalupe e S. Johan Batista nello Stato di Amazonas per l’animazione ai bambini, ma anche attraverso la toccante visita al carcere di Tabatinga. Impossibile descrivere tutte le emozioni, ma certo «ci piacerebbe che altri studenti potessero provare quello che abbiamo vissuto, perché è un’esperienza di comunità unica». Tanti giovani hanno deciso di "sacrificare" la loro estate per vivere un’esperienza di servizio nei Paesi poveri. Tornando a casa non si sono limitati a raccontare ciò che hanno fatto, ma quello che hanno visto: la carica di umanità e di dignità ritrovata sui volti di tanta gente.«Il rischio nell’università di oggi», ammette Andrea Bellieni di ritorno dall’Uganda, «è di vivere una vita scandita dal calendario accademico». Invece dovrebbe essere «un tempo di crescita e di formazione soprattutto umana». Per questo l’estate scorsa ha raccolto la sfida ed è partito per Kampala come studente al quarto anno di Medicina. «L’esperienza di tre settimane proposta del CeSi» ha rappresentato per lui un’occasione di «vita vissuta e non solo studiata sui libri». Andrea lavorava come volontario in ospedale dalle 8 del mattino al tardo pomeriggio e grazie al personale «altamente qualificato» è stato sempre accompagnato e istruito sulle malattie locali e sui casi da affrontare quotidianamente. L’impatto è stato «duro» soprattutto per «la mancanza di mezzi e di fondi» e così la pratica diventa fondamentale, al di là del «proprio bagaglio che è ancora la medicina delle definizioni». Di fronte a miseria, fame, malattie, condizioni precarie di vita si è reso conto che «esiste anche la voglia di lottare, la fiducia, la speranza, la fede e i sacrifici per andare avanti».Anche per Sara Caputo, 22 anni, di Brindisi ma trasferita a Milano dove ha studiato Economia e ora è iscritta al primo anno di Management per l’impresa, l’impatto è stato forte. «Non ho visto l’India dei documentari e delle guide turistiche», spiega. Catapultata in un Paese di «povertà e degrado», si è lasciata alle spalle troppo rapidamente il ricco Occidente. Mentre viaggiava guardava fuori dal finestrino e vedeva donne sedute per terra che tessevano avvolte nei loro sari o bambini scalzi e svestiti che camminavano nel fango. Gran parte della popolazione vive sotto la soglia della povertà eppure «ci hanno accolto con il preciso intento di farci sentire a casa e così è stato». «Ho ascoltato storie difficili e coraggiose, esistenze basate sul lavoro duro che si accontentano di 60 rupie al giorno (un euro circa) e hanno anche la forza di donare parte dei loro guadagni». La «formula vincente» per loro è il microcredito, dice Sara, «che permette alle famiglie di costituire micro business», unito ai corsi di scrittura, nozioni di sanità e igiene.Non è stata una scelta facile per Danilo Pagliari, al quinto anno di Medicina, decidere di partire sapendo «a cosa andavo incontro». Destinazione Panama, insieme a Biagio e a Ilaria. Sono arrivati a Sambù, un villaggio sperduto nella giungla e al confine con la Colombia, che hanno raggiunto dopo un viaggio estenuante e la navigazione su una specie di canoa. A seguirli nella loro esperienza di volontariato c’era don Hector, un sacerdote panamense che ha studiato a Roma e parlava bene l’italiano. «Grazie alla presenza della Chiesa, alle sue attività giornaliere e alla sua continua opera di evangelizzazione – dice Danilo – a Sambù si annuncia che c’è una maniera diversa di vivere, si condividono valori, si fa crescere un’etica dei comportamenti, del lavoro e della concezione dell’uomo e della donna». Danilo ha capito che fare il medico «è come una vocazione» e che «non è necessario spostarsi nell’altra parte del mondo per trovare persone sofferenti» perché «anche dalle nostre parti si può vivere la propria missione».I 20 giorni trascorsi in Brasile hanno lasciato in segno in Carlotta Tedesco al primo anno di Economia e in Sabrina D’Angelo al secondo di Infermieristica. «Abbiamo avuto la possibilità di conoscere un popolo eccezionale che, nonostante tutto, cammina a testa alta con la dignità dipinta sul volto». La loro esperienza di volontariato è passata dal bairro Guadalupe e S. Johan Batista nello Stato di Amazonas per l’animazione ai bambini, ma anche attraverso la toccante visita al carcere di Tabatinga. Impossibile descrivere tutte le emozioni, ma certo «ci piacerebbe che altri studenti potessero provare quello che abbiamo vissuto, perché è un’esperienza di comunità unica».