di Stefania CECCHETTI
Redazione

Si fa fatica a trovare storie di ordinaria desolazione (straniera) in via Padova. Emilse Ledesma, 39 anni, di professione colf, colombiana trapiantata nel quartiere intorno a via Padova dal 1997, dice: «Quando succedono fatti come quello di sabato della scorsa settimana i giornali dipingono la zona come terribile, ma non è così. Certo, c’è spaccio, ci sono delinquenti, ma dove non ci sono? Non penso che quanto è successo sia legato alla non integrazione, poteva succedere ovunque ».
Elmise ha tre figlie, la piccola frequenta l’asilo nido di via Padova, la mezzana, 9 anni, le elementari di via Venini e la grande, 14 anni, il linguistico Manzoni a Moscova: «Anche se sono colombiana, ho poche amicizie straniere, sono le mamme italiane ad aiutarmi di più nel conciliare lavoro e famiglia. Soprattutto una cara amica che insegna alla scuola del parco Trotter (in via Padova, ndr) e una mia vicina di casa che, nonostante abbia quattro figli, è sempre molto disponibile con me».
Elmise, che prima dell’arrivo della sua ultimogenita era membro del Consiglio pastorale della chiesa di San Gabriele (via Termopili, a un passo dal luogo della tragedia, oggi comunità pastorale insieme a Santa Maria Beltrade), parla della parrocchia come un luogo di accoglienza e integrazione: «I sacerdoti sono stati un appoggio morale molto importante per me, soprattutto da quando mio marito non sta bene e mi trovo a gestire tutto da sola».
L’omicidio di sabato è un caso isolato anche per Janette Messieha, straniera solo nel cognome perché il padre, egiziano in Italia da 35 anni, è perfettamente integrato: ha trovato moglie qui, ha due figli e un’impresa edile di proprietà. Janette è nata e crescita proprio in via Padova. Da pochi anni si è trasferita un centinaio di metri più in là, ma sempre in un quartiere ad alta intensità di immigrati. «Quello che è successo è inaccettabile – dice Janette -. I delinquenti, italiani o stranieri che siano, non piacciono a nessuno. Ma se uno straniero viene qui per lavorare e ha voglia di integrarsi allora è tutto un altro discorso. Mio padre è emigrato dall’Egitto perché lì, come cristiano, viveva una situazione difficile. Spesso pensiamo che gli egiziani siano tutti musulmani, ma non è così. Qui si è dato da fare: ha iniziato come cameriere e poi si è messo in proprio». I suoi amici? «Molti più italiani che stranieri», conclude Janette. Si fa fatica a trovare storie di ordinaria desolazione (straniera) in via Padova. Emilse Ledesma, 39 anni, di professione colf, colombiana trapiantata nel quartiere intorno a via Padova dal 1997, dice: «Quando succedono fatti come quello di sabato della scorsa settimana i giornali dipingono la zona come terribile, ma non è così. Certo, c’è spaccio, ci sono delinquenti, ma dove non ci sono? Non penso che quanto è successo sia legato alla non integrazione, poteva succedere ovunque ».Elmise ha tre figlie, la piccola frequenta l’asilo nido di via Padova, la mezzana, 9 anni, le elementari di via Venini e la grande, 14 anni, il linguistico Manzoni a Moscova: «Anche se sono colombiana, ho poche amicizie straniere, sono le mamme italiane ad aiutarmi di più nel conciliare lavoro e famiglia. Soprattutto una cara amica che insegna alla scuola del parco Trotter (in via Padova, ndr) e una mia vicina di casa che, nonostante abbia quattro figli, è sempre molto disponibile con me».Elmise, che prima dell’arrivo della sua ultimogenita era membro del Consiglio pastorale della chiesa di San Gabriele (via Termopili, a un passo dal luogo della tragedia, oggi comunità pastorale insieme a Santa Maria Beltrade), parla della parrocchia come un luogo di accoglienza e integrazione: «I sacerdoti sono stati un appoggio morale molto importante per me, soprattutto da quando mio marito non sta bene e mi trovo a gestire tutto da sola».L’omicidio di sabato è un caso isolato anche per Janette Messieha, straniera solo nel cognome perché il padre, egiziano in Italia da 35 anni, è perfettamente integrato: ha trovato moglie qui, ha due figli e un’impresa edile di proprietà. Janette è nata e crescita proprio in via Padova. Da pochi anni si è trasferita un centinaio di metri più in là, ma sempre in un quartiere ad alta intensità di immigrati. «Quello che è successo è inaccettabile – dice Janette -. I delinquenti, italiani o stranieri che siano, non piacciono a nessuno. Ma se uno straniero viene qui per lavorare e ha voglia di integrarsi allora è tutto un altro discorso. Mio padre è emigrato dall’Egitto perché lì, come cristiano, viveva una situazione difficile. Spesso pensiamo che gli egiziani siano tutti musulmani, ma non è così. Qui si è dato da fare: ha iniziato come cameriere e poi si è messo in proprio». I suoi amici? «Molti più italiani che stranieri», conclude Janette.

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