Lo sgombero di 120 stranieri in via Chiaravalle a Milano «addolora e preoccupa»�il direttore della Caritas ambrosiana don Roberto Davanzo, sia per i 50 bambini che già frequentavano le scuole del quartiere, sia perché annulla un percorso di integrazione già avviato con tante famiglie
di don Roberto DAVANZO direttore Caritas Ambrosiana
Redazione
Nonostante, la temperatura rigida e qualche primo fiocco di neve, martedì all’estrema periferia della città, in via Vaiano Valle a Chiaravalle, le ruspe mandate dal Comune hanno abbattuto le catapecchie dove un gruppo di rom romeni aveva trovato rifugio. Altri gruppi sono stati sgomberati da altre parti della città. Con il risultato che diverse persone (uomini, donne e bambini) si sono ritrovati al freddo, privi di un seppur precario riparo.
Questo fatto, al di là di ogni altra considerazione, ci addolora e preoccupa. Teniamo conto, ad esempio, che tra le 120 persone di Chiaravalle risulta ci fossero anche una cinquantina di ragazzini, che – secondo quanto ci riferiscono i volontari della comunità di Sant’Egidio che li seguivano – frequentavano in parte le scuole del quartiere. Qualche genitore, nonostante l’arrivo delle ruspe e degli agenti, ha inteso accompagnarli lo stesso in classe, forse con la speranza di garantire almeno a loro qualche ora di caldo in più ed una giornata meno traumatica. La stragrande maggioranza, come è accaduto a seguito di tutti i precedenti sgomberi, a scuola invece stamattina non c’è andata e non ci andrà nemmeno domani.
Che cosa abbiamo ottenuto? Mi chiedo quale fiducia nelle istituzioni potrà avere quel ragazzino che martedì, mentre preparava la cartella con i libri l’astuccio e i quaderni, ha visto uomini in divisa ordinare ai suoi genitori di sbaraccare e poi vedere le ruspe buttare giù la sola casa che ha. Intuiamo tutti come queste scelte e questi interventi finiscano per annullare gli sforzi di chi tenta un seppur timido processo di integrazione.
Vorrei però fare anche un’altra considerazione. Secondo una ricerca condotta dalla Caritas e dall’Ismu a gennaio del 2007 a Milano i rom presenti erano 4130 circa. Il censimento realizzato dalla Prefettura all’inizio del 2008 ne contava 3562, ma non teneva conto dei giostrai e delle persone che vivevano in appartamenti. Questi dati non ci consentono di verificare se la politica degli sgomberi sia servita ad allontanare dalla città i rom, a “ripulirla” dalla loro presenza, come si dice con un’espressione piuttosto infelice. Sappiamo però che la metà dei 120 di Chiaravalle si erano accampati in quella zona dopo essere stati sgomberati da altre zone della città. Il che, almeno in questo caso, la dice lunga sull’efficacia delle misure di forza, anche qualora non volessimo mettere in discussione la loro legittimità morale.
Che cosa si dovrebbe fare allora?
La premessa alle proposte che vorremmo offrire riguarda la rinnovata disponibilità delle realtà che da anni si occupano dei rom – molte delle quali appartenenti al mondo ecclesiale – a collaborare con la pubblica amministrazione. Certo, a condizione che siano informate prima degli sgomberi e siano coinvolte nella ricerca di soluzioni che possano prevedere anche degli allontanamenti, ma secondo modalità concertate, graduali, che tengano conto delle situazioni particolari.
Anzitutto vorremo auspicare che gli sgomberi si fermassero almeno durante l’inverno. La sensibilità del Comune che propone un piano per l’emergenza freddo sta a dire che in questa stagione esiste una questione umanitaria, che ovviamente vale anche per i rom.
Vorremmo inoltre chiedere che ai cittadini rom, quando vengono fatti allontanare dalle aree da loro occupate abusivamente, siano offerte delle alternative, che non prevedano la necessità per le donne e i bambini di separarsi da mariti e papà.
Non abbiamo ricette risolutive da proporre. Ma il senso di umanità ci dice che si devono ricercare per le famiglie rom delle soluzioni che facilitino la loro integrazione e cioè: ai bambini di frequentare la scuola e ai genitori di lavorare. A queste soluzioni si giunge offrendo “posti sicuri in cui fermarsi”: una sorta di pensionato per famiglie, come già ce ne sono, come prima emergenza e poi un progetto che preveda una rete di appartamenti, casette in autocostruzione, cascine che possono essere risistemate, alcuni operatori che accompagnino l’inserimento. Dove queste esperienze sono state tentate stanno dando buoni frutti.
Condividiamo pertanto, il documento redatto dalla Chiesa di Rho quando afferma che «fino al momento in cui non c’è il “meglio” definitivo, è utile mantenere il “meno peggio” provvisorio». Ma ci sembra importante anche appellarci a tutti, alle Istituzioni, agli Enti, come a ogni singolo e privato cittadino che abbia la possibilità di mettere a disposizione un’abitazione con regolare contratto di affitto, avvalendoci di una struttura organizzativa finalizzata ad accompagnare gli inserimenti e ad offrire garanzie perché non ci siano difficoltà e disagi per nessuno.
A chiedere questo sono le famiglie rom, ma anche tanti cittadini di buona volontà che ci stanno telefonando per segnalarci queste persone nel bisogno: famiglie rimaste senza niente, donne conosciute da tempo magari perché chiedono l’elemosina e bambini compagni di scuola. Nonostante, la temperatura rigida e qualche primo fiocco di neve, martedì all’estrema periferia della città, in via Vaiano Valle a Chiaravalle, le ruspe mandate dal Comune hanno abbattuto le catapecchie dove un gruppo di rom romeni aveva trovato rifugio. Altri gruppi sono stati sgomberati da altre parti della città. Con il risultato che diverse persone (uomini, donne e bambini) si sono ritrovati al freddo, privi di un seppur precario riparo. Questo fatto, al di là di ogni altra considerazione, ci addolora e preoccupa. Teniamo conto, ad esempio, che tra le 120 persone di Chiaravalle risulta ci fossero anche una cinquantina di ragazzini, che – secondo quanto ci riferiscono i volontari della comunità di Sant’Egidio che li seguivano – frequentavano in parte le scuole del quartiere. Qualche genitore, nonostante l’arrivo delle ruspe e degli agenti, ha inteso accompagnarli lo stesso in classe, forse con la speranza di garantire almeno a loro qualche ora di caldo in più ed una giornata meno traumatica. La stragrande maggioranza, come è accaduto a seguito di tutti i precedenti sgomberi, a scuola invece stamattina non c’è andata e non ci andrà nemmeno domani. Che cosa abbiamo ottenuto? Mi chiedo quale fiducia nelle istituzioni potrà avere quel ragazzino che martedì, mentre preparava la cartella con i libri l’astuccio e i quaderni, ha visto uomini in divisa ordinare ai suoi genitori di sbaraccare e poi vedere le ruspe buttare giù la sola casa che ha. Intuiamo tutti come queste scelte e questi interventi finiscano per annullare gli sforzi di chi tenta un seppur timido processo di integrazione. Vorrei però fare anche un’altra considerazione. Secondo una ricerca condotta dalla Caritas e dall’Ismu a gennaio del 2007 a Milano i rom presenti erano 4130 circa. Il censimento realizzato dalla Prefettura all’inizio del 2008 ne contava 3562, ma non teneva conto dei giostrai e delle persone che vivevano in appartamenti. Questi dati non ci consentono di verificare se la politica degli sgomberi sia servita ad allontanare dalla città i rom, a “ripulirla” dalla loro presenza, come si dice con un’espressione piuttosto infelice. Sappiamo però che la metà dei 120 di Chiaravalle si erano accampati in quella zona dopo essere stati sgomberati da altre zone della città. Il che, almeno in questo caso, la dice lunga sull’efficacia delle misure di forza, anche qualora non volessimo mettere in discussione la loro legittimità morale. Che cosa si dovrebbe fare allora? La premessa alle proposte che vorremmo offrire riguarda la rinnovata disponibilità delle realtà che da anni si occupano dei rom – molte delle quali appartenenti al mondo ecclesiale – a collaborare con la pubblica amministrazione. Certo, a condizione che siano informate prima degli sgomberi e siano coinvolte nella ricerca di soluzioni che possano prevedere anche degli allontanamenti, ma secondo modalità concertate, graduali, che tengano conto delle situazioni particolari. Anzitutto vorremo auspicare che gli sgomberi si fermassero almeno durante l’inverno. La sensibilità del Comune che propone un piano per l’emergenza freddo sta a dire che in questa stagione esiste una questione umanitaria, che ovviamente vale anche per i rom. Vorremmo inoltre chiedere che ai cittadini rom, quando vengono fatti allontanare dalle aree da loro occupate abusivamente, siano offerte delle alternative, che non prevedano la necessità per le donne e i bambini di separarsi da mariti e papà. Non abbiamo ricette risolutive da proporre. Ma il senso di umanità ci dice che si devono ricercare per le famiglie rom delle soluzioni che facilitino la loro integrazione e cioè: ai bambini di frequentare la scuola e ai genitori di lavorare. A queste soluzioni si giunge offrendo “posti sicuri in cui fermarsi”: una sorta di pensionato per famiglie, come già ce ne sono, come prima emergenza e poi un progetto che preveda una rete di appartamenti, casette in autocostruzione, cascine che possono essere risistemate, alcuni operatori che accompagnino l’inserimento. Dove queste esperienze sono state tentate stanno dando buoni frutti. Condividiamo pertanto, il documento redatto dalla Chiesa di Rho quando afferma che «fino al momento in cui non c’è il “meglio” definitivo, è utile mantenere il “meno peggio” provvisorio». Ma ci sembra importante anche appellarci a tutti, alle Istituzioni, agli Enti, come a ogni singolo e privato cittadino che abbia la possibilità di mettere a disposizione un’abitazione con regolare contratto di affitto, avvalendoci di una struttura organizzativa finalizzata ad accompagnare gli inserimenti e ad offrire garanzie perché non ci siano difficoltà e disagi per nessuno. A chiedere questo sono le famiglie rom, ma anche tanti cittadini di buona volontà che ci stanno telefonando per segnalarci queste persone nel bisogno: famiglie rimaste senza niente, donne conosciute da tempo magari perché chiedono l’elemosina e bambini compagni di scuola.