Un'insegnante ha scritto a "Redattore Sociale" per denunciare le spaventose condizioni di vita dopo lo sgombero. Otto famiglie occupano le fondamenta di un palazzo mai terminato: «Ombre spaventate, che non escono nel prato per non essere viste»


Redazione

Domenica scorsa Flaviana Robbiati, una delle “maestre dei rom” di Milano, è andata a vedere dove vivono alcuni dei piccoli alunni che frequentano le scuole milanesi, trovandoli in condizioni di vita spaventose. Poi ha scritto a Redattore Sociale
«Credevo di aver visto un ventaglio esauriente di posti dove i rom continuamente scacciati si accampano, compreso il girone dantesco della fabbrica crollata di Rubattino tra macerie e topi (20 novembre). Quello che ho visto oggi è molto, molto peggio. Zona Bovisa, un edificio a più piani mai terminato, di cui esistono solo pilastri d’acciaio verticali e orizzontali e solette. Il tutto evidentemente abbandonato da anni.
Dal marciapiede spostando una lamiera si accede a un prato incolto, lo si attraversa e si arriva all’edificio: nessuna traccia dei rom, non uno, non una voce. Si costeggia il palazzo, cioè il suo scheletro, tra sporcizia e masserizie e si comincia a scendere uno scivolo, fino a infilarsi sotto il palazzo dove nella semioscurità vivono 7 o 8 famiglie rom. Sottoterra e con la pochissima luce che filtra, con le correnti fredde, molto fredde create da spazi pieni e vuoti. Ci abituiamo alla poca luce (siamo in quattro, tre maestre e una signora volontaria) e cominciamo a veder tende a igloo, bambini, persone: fantasmi, ombre spaventate che non escono nel prato dove il sole rende la temperatura meno rigida per non essere visti. Il popolo del sottoterra milanese. Tutti ci parlano del freddo, ma ancora di più dello sgombero annunciato per domani. Nessuno si lamenta, nessuno ci chiede alcunché.
Mentre siamo lì una signora rom pulisce i fornelli (l’acqua la prendono alla fontanella della piazza vicina), cambia i fogli di giornale che fanno da tovaglia, scalda una pentola d’acqua e lava le stoviglie. Un’altra scopa il pavimento di cemento: lo spazio in cui stanno è pulito, nelle tende regna l’ordine, ma è un posto da topi, siamo sottoterra al freddo e all’umido puzzolente. Una nostra scolara di 10 anni ci chiede un libro per studiare: lei a scuola ci andava, ma i continui sgomberi hanno reso impossibile la frequenza. Ci chiede quando potrà tornare. Per tutto il tempo che stiamo lì non uscirà mai dalle braccia della sua maestra.
Un altro bambino, di 6 anni, quando vede la sua maestra si ferma immobile e resta così per un po’, ma intanto la faccina gli si trasforma e diventa un unico grande sorriso, sembra che gli scoppi la luce dentro. Poi le corre incontro e le salta in braccio. Verso di noi solo rispetto, tanto rispetto e grande educazione, verso i bambini coccole e tenerezza. Noi ce li coccoliamo i nostri scolari e anche i loro fratellini. Mi chiedo in quale altra parte del mondo le persone sono costrette a vivere così e con la paura di essere scacciati anche dai sotterranei: forse nelle fogne di Bucarest? Forse nell’Africa più ingiusta? Forse nelle favelas del Brasile? Ci è difficile venire via da lì, e quando usciamo non commentiamo. Una donna rom ci augura “buon 8 marzo”». Domenica scorsa Flaviana Robbiati, una delle “maestre dei rom” di Milano, è andata a vedere dove vivono alcuni dei piccoli alunni che frequentano le scuole milanesi, trovandoli in condizioni di vita spaventose. Poi ha scritto a Redattore Sociale«Credevo di aver visto un ventaglio esauriente di posti dove i rom continuamente scacciati si accampano, compreso il girone dantesco della fabbrica crollata di Rubattino tra macerie e topi (20 novembre). Quello che ho visto oggi è molto, molto peggio. Zona Bovisa, un edificio a più piani mai terminato, di cui esistono solo pilastri d’acciaio verticali e orizzontali e solette. Il tutto evidentemente abbandonato da anni.Dal marciapiede spostando una lamiera si accede a un prato incolto, lo si attraversa e si arriva all’edificio: nessuna traccia dei rom, non uno, non una voce. Si costeggia il palazzo, cioè il suo scheletro, tra sporcizia e masserizie e si comincia a scendere uno scivolo, fino a infilarsi sotto il palazzo dove nella semioscurità vivono 7 o 8 famiglie rom. Sottoterra e con la pochissima luce che filtra, con le correnti fredde, molto fredde create da spazi pieni e vuoti. Ci abituiamo alla poca luce (siamo in quattro, tre maestre e una signora volontaria) e cominciamo a veder tende a igloo, bambini, persone: fantasmi, ombre spaventate che non escono nel prato dove il sole rende la temperatura meno rigida per non essere visti. Il popolo del sottoterra milanese. Tutti ci parlano del freddo, ma ancora di più dello sgombero annunciato per domani. Nessuno si lamenta, nessuno ci chiede alcunché.Mentre siamo lì una signora rom pulisce i fornelli (l’acqua la prendono alla fontanella della piazza vicina), cambia i fogli di giornale che fanno da tovaglia, scalda una pentola d’acqua e lava le stoviglie. Un’altra scopa il pavimento di cemento: lo spazio in cui stanno è pulito, nelle tende regna l’ordine, ma è un posto da topi, siamo sottoterra al freddo e all’umido puzzolente. Una nostra scolara di 10 anni ci chiede un libro per studiare: lei a scuola ci andava, ma i continui sgomberi hanno reso impossibile la frequenza. Ci chiede quando potrà tornare. Per tutto il tempo che stiamo lì non uscirà mai dalle braccia della sua maestra.Un altro bambino, di 6 anni, quando vede la sua maestra si ferma immobile e resta così per un po’, ma intanto la faccina gli si trasforma e diventa un unico grande sorriso, sembra che gli scoppi la luce dentro. Poi le corre incontro e le salta in braccio. Verso di noi solo rispetto, tanto rispetto e grande educazione, verso i bambini coccole e tenerezza. Noi ce li coccoliamo i nostri scolari e anche i loro fratellini. Mi chiedo in quale altra parte del mondo le persone sono costrette a vivere così e con la paura di essere scacciati anche dai sotterranei: forse nelle fogne di Bucarest? Forse nell’Africa più ingiusta? Forse nelle favelas del Brasile? Ci è difficile venire via da lì, e quando usciamo non commentiamo. Una donna rom ci augura “buon 8 marzo”».

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