Di fronte alla presenza capillare della criminalità organizzata, l'importanza dell'impegno educativo per formare coscienze nuove. Monsignor Eros Monti: «Reagire all'illegalità con la vigilanza»
di Pino NARDI
Redazione
Milano come Platì o San Luca. I titoli dei giornali hanno sparato in prima pagina il pesante giogo della ’ndrangheta nelle province lombarde. Il maxi-blitz dei giorni scorsi, con centinaia di arresti, ha rappresentato in modo clamoroso quello che anche il cardinale Tettamanzi in questi mesi aveva paventato: un controllo pesantissimo sul territorio con un obiettivo strategico, l’Expo. La Chiesa ambrosiana si interroga dunque su quale contributo può dare per sconfiggere il cancro mafioso, a partire dalle coscienze. Ne parliamo con monsignor Eros Monti, vicario per la Vita sociale.
L’ondata di arresti di esponenti della ’ndrangheta ha fatto emergere una presenza criminale nel territorio della Diocesi. La comunità cristiana come si pone di fronte al fenomeno mafioso?
Questi fatti di cronaca ci riportano al dato fondamentale: là dove viene meno il senso della legalità (la legge vista come il primo modo di rispettare i diritti di tutti, di promuoverli e di incrementarli) subentrano invece altre logiche, quelle del più forte, di chi è in posizione dominante, del più ricco. Non solo questo assume forma in chi individualmente piega la legge a proprio vantaggio, ma dilagano anche vere e proprie organizzazioni criminali, strutture particolarmente radicate che rischiano di annidarsi in modo capillare anche sul nostro territorio.
Che fare, dunque?
Credo che la risposta migliore sia quella di un grande sforzo educativo nel quale, come comunità cristiana, ci sentiamo impegnati. Va richiamata anzitutto la missione delle famiglie, perché le regole fondamentali del vivere sociale si apprendono dove si educa a una vera onestà, all’uso del denaro, al senso della parola data. Poi dalla casa simbolicamente si esce, si impara a vivere la città: c’è una responsabilità delle scuole e delle istituzioni. Come comunità cristiana dobbiamo fare ogni sforzo per educare a una nuova cittadinanza, al modo nuovo di vivere la città. Troppi cristiani vivono invece la separazione tra una fede individuale e l’attenzione alle leggi (codice della strada, pagamento di imposte, il rispetto dell’ambiente e dei diritti di chi lavora). Ci sono realtà che toccano la vita di tutti i giorni, che creano quel tessuto vitale nuovo in una società autenticamente democratica, che cerca non solo il bene individuale, ma quello di tutti.
Certo i cristiani hanno un compito ancora più esigente…
Infatti. La comunità cristiana non deve perdere le occasioni educative nell’esercizio della pratica pastorale. Penso a un annuncio della Parola che passi da una proposta individuale della fede (rapporto tra me e Dio) a una inclusiva degli organi sociali: ho in mente la Parola annunciata domenica scorsa, quell’appello forte di Gesù – «Rendete a Cesare quello che è di Cesare» – che sempre mi colpisce. Perché quel «rendete a Cesare» suppone che Cesare, cioè la società, abbia già dato a tutti molto, di cui siamo debitori. Occorre allora restituire attraverso l’osservanza delle leggi, così come quel «rendete» suppone che si ubbidisce a Dio anche rendendo a Cesare. Gli obblighi sociali fanno parte della vita di fede, non sono qualcosa di aggiuntivo o addirittura di separato e di contrapposto. Penso poi ad altre occasioni come la catechesi, l’esperienza degli oratori feriali, dove si impara a vivere insieme in modo rinnovato. Non ultimo le forme di comunicazione che la parrocchia possiede: i giornali della comunità possono essere luoghi dove si riflette non solo sui grandi principi, ma proprio sui fatti che toccano il nostro territorio, che sono accaduti vicino a noi e che non devono lasciarci indifferenti. All’illegalità occorre reagire, con molta vigilanza e attenzione, perché queste modalità di insinuarsi della criminalità organizzata nei nostri territori vanno messe in luce. Nel momento in cui l’illegalità viene scoperta, buona parte del percorso è già fatta, perché essa si nutre dell’omertà e della copertura anche degli onesti e dei buoni. Quindi è molto importante che questi fatti vengano evidenziati in tutto il loro spessore e gravità.
Le comunità cristiane sono dunque una “sentinella” sul territorio. È il caso di pensare a un’educazione sociale specifica sul grave cancro sociale e morale delle infiltrazioni mafiose, che inquinano economia e politica?
Sì, certamente non basta solo una risposta emotiva, immediata o di alcuni soggetti più generosi degli altri. Occorre davvero un’educazione radicata, che la comunità cristiana da sola non può trattare, ma che è chiamata a dare perché queste sono nuove strutture di peccato. Quindi è necessaria una risposta approfondita: studiare questi fenomeni, comprenderli in profondità, trovare le strategie giuste per reagire ad essi e soprattutto per non lasciarsene ovviamente intaccare. Credo che questo compito trovi le nostre comunità cristiane in prima linea. In questo sforzo naturalmente occorrerà la collaborazione di tutti, di cittadinanza e istituzioni.
Il cardinale Tettamanzi non da oggi ha messo in guardia sul rischio della presenza della criminalità organizzata, anche riferito all’Expo. È stata una voce nel deserto, vista la sottovalutazione di alcune istituzioni che sostengono che la mafia a Milano non esiste?
Dobbiamo dire che la voce del Cardinale è profetica: come tale è illuminante, anticipatrice, ha una capacità forte di guardare avanti. Per questo è una voce che deve davvero essere ascoltata a fondo. L’Expo è una grande occasione, ma si sta perdendo di vista quello che è il suo obiettivo principale, arrivare a nutrire il pianeta in una condizione in cui lo sviluppo è ampiamente minacciato, la fame nel mondo avanza e così via. Quindi la parola dell’Arcivescovo è un aiuto grande alla nostra Chiesa locale e a tutta la città per tenere gli occhi aperti e non ignorare questi fenomeni. Una voce che ha bisogno di essere più volte ripresa in profondità da tutti, soprattutto da chi ha responsabilità civili. Milano come Platì o San Luca. I titoli dei giornali hanno sparato in prima pagina il pesante giogo della ’ndrangheta nelle province lombarde. Il maxi-blitz dei giorni scorsi, con centinaia di arresti, ha rappresentato in modo clamoroso quello che anche il cardinale Tettamanzi in questi mesi aveva paventato: un controllo pesantissimo sul territorio con un obiettivo strategico, l’Expo. La Chiesa ambrosiana si interroga dunque su quale contributo può dare per sconfiggere il cancro mafioso, a partire dalle coscienze. Ne parliamo con monsignor Eros Monti, vicario per la Vita sociale.L’ondata di arresti di esponenti della ’ndrangheta ha fatto emergere una presenza criminale nel territorio della Diocesi. La comunità cristiana come si pone di fronte al fenomeno mafioso?Questi fatti di cronaca ci riportano al dato fondamentale: là dove viene meno il senso della legalità (la legge vista come il primo modo di rispettare i diritti di tutti, di promuoverli e di incrementarli) subentrano invece altre logiche, quelle del più forte, di chi è in posizione dominante, del più ricco. Non solo questo assume forma in chi individualmente piega la legge a proprio vantaggio, ma dilagano anche vere e proprie organizzazioni criminali, strutture particolarmente radicate che rischiano di annidarsi in modo capillare anche sul nostro territorio.Che fare, dunque?Credo che la risposta migliore sia quella di un grande sforzo educativo nel quale, come comunità cristiana, ci sentiamo impegnati. Va richiamata anzitutto la missione delle famiglie, perché le regole fondamentali del vivere sociale si apprendono dove si educa a una vera onestà, all’uso del denaro, al senso della parola data. Poi dalla casa simbolicamente si esce, si impara a vivere la città: c’è una responsabilità delle scuole e delle istituzioni. Come comunità cristiana dobbiamo fare ogni sforzo per educare a una nuova cittadinanza, al modo nuovo di vivere la città. Troppi cristiani vivono invece la separazione tra una fede individuale e l’attenzione alle leggi (codice della strada, pagamento di imposte, il rispetto dell’ambiente e dei diritti di chi lavora). Ci sono realtà che toccano la vita di tutti i giorni, che creano quel tessuto vitale nuovo in una società autenticamente democratica, che cerca non solo il bene individuale, ma quello di tutti.Certo i cristiani hanno un compito ancora più esigente…Infatti. La comunità cristiana non deve perdere le occasioni educative nell’esercizio della pratica pastorale. Penso a un annuncio della Parola che passi da una proposta individuale della fede (rapporto tra me e Dio) a una inclusiva degli organi sociali: ho in mente la Parola annunciata domenica scorsa, quell’appello forte di Gesù – «Rendete a Cesare quello che è di Cesare» – che sempre mi colpisce. Perché quel «rendete a Cesare» suppone che Cesare, cioè la società, abbia già dato a tutti molto, di cui siamo debitori. Occorre allora restituire attraverso l’osservanza delle leggi, così come quel «rendete» suppone che si ubbidisce a Dio anche rendendo a Cesare. Gli obblighi sociali fanno parte della vita di fede, non sono qualcosa di aggiuntivo o addirittura di separato e di contrapposto. Penso poi ad altre occasioni come la catechesi, l’esperienza degli oratori feriali, dove si impara a vivere insieme in modo rinnovato. Non ultimo le forme di comunicazione che la parrocchia possiede: i giornali della comunità possono essere luoghi dove si riflette non solo sui grandi principi, ma proprio sui fatti che toccano il nostro territorio, che sono accaduti vicino a noi e che non devono lasciarci indifferenti. All’illegalità occorre reagire, con molta vigilanza e attenzione, perché queste modalità di insinuarsi della criminalità organizzata nei nostri territori vanno messe in luce. Nel momento in cui l’illegalità viene scoperta, buona parte del percorso è già fatta, perché essa si nutre dell’omertà e della copertura anche degli onesti e dei buoni. Quindi è molto importante che questi fatti vengano evidenziati in tutto il loro spessore e gravità.Le comunità cristiane sono dunque una “sentinella” sul territorio. È il caso di pensare a un’educazione sociale specifica sul grave cancro sociale e morale delle infiltrazioni mafiose, che inquinano economia e politica?Sì, certamente non basta solo una risposta emotiva, immediata o di alcuni soggetti più generosi degli altri. Occorre davvero un’educazione radicata, che la comunità cristiana da sola non può trattare, ma che è chiamata a dare perché queste sono nuove strutture di peccato. Quindi è necessaria una risposta approfondita: studiare questi fenomeni, comprenderli in profondità, trovare le strategie giuste per reagire ad essi e soprattutto per non lasciarsene ovviamente intaccare. Credo che questo compito trovi le nostre comunità cristiane in prima linea. In questo sforzo naturalmente occorrerà la collaborazione di tutti, di cittadinanza e istituzioni.Il cardinale Tettamanzi non da oggi ha messo in guardia sul rischio della presenza della criminalità organizzata, anche riferito all’Expo. È stata una voce nel deserto, vista la sottovalutazione di alcune istituzioni che sostengono che la mafia a Milano non esiste?Dobbiamo dire che la voce del Cardinale è profetica: come tale è illuminante, anticipatrice, ha una capacità forte di guardare avanti. Per questo è una voce che deve davvero essere ascoltata a fondo. L’Expo è una grande occasione, ma si sta perdendo di vista quello che è il suo obiettivo principale, arrivare a nutrire il pianeta in una condizione in cui lo sviluppo è ampiamente minacciato, la fame nel mondo avanza e così via. Quindi la parola dell’Arcivescovo è un aiuto grande alla nostra Chiesa locale e a tutta la città per tenere gli occhi aperti e non ignorare questi fenomeni. Una voce che ha bisogno di essere più volte ripresa in profondità da tutti, soprattutto da chi ha responsabilità civili. – – Comunicato della Comunità pastorale di Paderno Dugnano