In Duomo l'Arcivescovo ha presieduto la Celebrazione per la XXV Giornata della Vita Consacrata. «Continuare a reagire con la preghiera, la carità, la sapienza, all'emergenza spirituale»
di Annamaria
Braccini
Sì, vale la pena vivere un’intera vita nella consacrazione al Signore, vale la pena affrontare difficoltà, cammini non sempre facili, per sperimentare e comprendere la gioia vera e piena. Potrebbe essere questa, in estrema sintesi, la parola che ha idealmente guidato la riflessione nella Messa per la XXV Giornata della Vita Consacrata, presieduta in Duomo dall’Arcivescovo, concelebrata da 5 Vescovi – tra cui il vicario generale, monsignor Franco Agnesi, il Vicario episcopale per la Vita Consacrata, monsignor Paolo Martinelli, monsignor Luigi Stucchi, collaboratore della stesso Ufficio – il vicario episcopale per la Zona pastorale I-Milano, monsignor Carlo Azzimonti e alcuni Canonici del Capitolo metropolitano. Il Rito, con la benedizione delle candele, si avvia dall’altare della Madonna dell’Albero, da cui muovono una rappresentanza di religiose e religiosi, consacrati e consacrate, che hanno tra le mani, appunto, candele e piccole fiammelle, e i concelebranti. Nella breve processione viene anche portata un’icona della Madre di Dio con il Bambino che, quest’anno, sostituisce la tavola di Michelino da Besozzo della “Madonna dell’Idea”, attualmente sottoposta a restauro.
Con le dovute distanze, tra le navate, siedono molti rappresentanti della Vita consacrata. Monsignor Martinelli si rivolge all’Arcivescovo nel suo saluto di benvenuto. «Grazie per le molteplici attenzioni che ci sta dedicando. La Vita Consacrata in questo tempo, come tutta la popolazione, ha alle spalle un anno duro di prova. L’emergenza sanitaria ha colpito molte comunità. Alcune, già in difficoltà, hanno dovuto chiudere la loro preziosa presenza e vogliamo ricordare il bene che hanno fatto, ma non mancano anche i nuovi arrivi, soprattutto da altre Nazioni, alimentando così il laboratorio di Chiesa dalle genti. Le persone consacrate hanno apprezzato molto il suo richiamo insistente all’emergenza spirituale del nostro tempo, più grave di quella sanitaria, che inibisce energie e raffredda i cuori. Per questo gli Istituti sentono il desiderio di poter condividere il proprio patrimonio spirituale di sapienza per aiutare tutti ritrovare il senso di speranza, come comunità di accoglienza, di intercessione e di accompagnamento dell’uomo ferito, promuovendo relazioni e legami autentici poiché siamo “fratelli tutti”».
Cosi, in questa prospettiva, anche le claustrali hanno voluto rendersi presenti alla Celebrazione, «con l’offerta di un cero da loro preparato raffigurante, accanto alla mangiatoia di Betlemme, un asinello e una pecorella, immagini dell’umiltà, docilità e mansuetudine a cui tutte le claustrali tendono».
L’omelia dell’Arcivescovo
L’omelia, attraverso l’incontro con 4 figure, narra la vita consacrata nei suoi diversi aspetti. Figure immaginarie, ma paradigmatiche che raccontano ruoli-simbolo di una concretezza quotidiana, con le sue difficoltà e gioie, ricordi e speranze, ieri e domani, esattamente come è la vita di tutti A partire da suor Assunta, che vuole chiamarsi suor Niente (il nome in effetti dice tutto), entrata 47 anni fa in istituto, che sta in cucina e tiene in ordine la casa e che, dopo tanti anni, può dire «che vale la pena spendere tutta la vita così, vigilando nell’attesa dell’incontro con Gesù».
Poi, père Paul, ora Provinciale del suo Istituto, che ha fatto carriera in fretta. Un carattere forte, forse anche un poco spigoloso. «Il Provinciale deve prendere molte decisioni e c’è sempre chi dice che la decisione è sbagliata. Il Provinciale deve parlare con tutti e c’è sempre chi non vuole parlare con me. Però vale la pena. Vale la pena di avere la responsabilità se puoi accogliere Gesù tra le braccia. Vale la pena di aspettare consolazione, non dagli applausi, ma dal vedere la salvezza che viene da Dio».
E, ancora, sister Jenny, a cui manca tutto del suo paese, ma che pensa: «qui è facile andare in chiesa e partecipare alla Messa, ma le chiese sono vuote e i canti sono una pena; qui fa freddo; qui ci sono più cani che bambini. Ma vale la pena sentire leggere il Vangelo in una lingua difficile, perché parla di Gesù. Vale la pena entrare nelle chiese deserte, perché è custodito il segno della presenza di Gesù».
Infine, Emy, non ancora suora che fa fatica ad abituarsi a regole e orari precisi e che, forse, ha deluso la sua famiglia entrando in istituto. «La vita comunitaria ha le sue complicazioni, ma vale la pena perché siamo come il tempio dove entra Gesù. Le regole e le abitudini, i caratteri diversi e le differenze di età talora sono antipatici, ma vale la pena per fare come Gesù che ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Siamo la voce della sposa che canta per lo Sposo. Se non ci fosse la mia comunità come potrei pregare e servire come vuole Gesù?”».
Evidente la conclusione – che è anche un poco una lezione – dell’Arcivescovo. «Molti discorsi trattano dei numeri, delle età, dei problemi economici, dei problemi psicologici e culturali. Ma oggi mi sembra che siamo qui per celebrare quella gioia che ha riempito la vita di Simeone, di Anna (il riferimento è alla pagina evangelica di Luca appena proclamata) e di tutti noi: vale la pena di attendere così a lungo, vale la pena di perseverare nella scelta della vita consacrata a motivo di Gesù».
E, a conclusione della Celebrazione, ancora un pensiero di ringraziamento con quell’osservazione che rimane nel cuore: «Stiamo vivendo un anno terribile. Tante comunità sono state duramente provate da malattie, morti, da tanta solitudine, da tanta vita vita sospesa, chiusa, bloccata. Consacrate e consacrati di molti Paesi non hanno potuto fare visite previste a casa loro e, quindi, vivono nell’apprensione per quello che sta succedendo nei luoghi di origine. Noi vogliamo fissare lo sguardo su Gesù, vogliamo incontrare Lui, sentire la sua benedizione come consolazione di cui abbiamo bisogno per esser sereni, edificati, per essere uomini e donne che continuano a reagire con la preghiera, la carità, la sapienza, a quella emergenza spirituale che rischia di inaridire questo nostro tempo».