L’Arcivescovo ha ordinato in Duomo 23 nuovi sacerdoti, di cui 22 diocesani. Tra mascherine, contingentamento dei presenti, gesti sobri e trattenuti, la Celebrazione è stata comunque una festa per tutta la Chiesa ambrosiana

di Annamaria Braccini

ordinazioni presbiterali 2020 (G)

«Questi sono i tre aspetti della riforma di cui sento la responsabilità e per cui vi chiamo a collaborare, la gioia di chi dimora nello stupore, il volersi bene, la condivisione. Siete stati chiamati e siete venuti, siete stati preparati e conosciuti e ora siete mandati: siate grati, siate lieti, non siate attaccati a quello che è vostro, al vostro punto di vista, per essere un cuore solo e un’anima sola perché il mondo creda».

Nel giorno dell’Ordinazione dei sacerdoti ambrosiani 2020 – diversa, nelle modalità, dal consueto, ma vissuta con lo spirito di fede e l’attesa di ogni anno -, la consegna dell’Arcivescovo ai 22 candidati – cui si aggiunge un diacono nicaraguense – risuona, tra le navate, forte e chiara.

In un Duomo non gremito, come di consueto, dove il distanziamento sociale e tutte le regole antipandemia sono rigidamente rispettate, c’è, comunque, tutta la vivacità e la ricchezza di carismi della nostra Chiesa. Un centinaio di concelebranti, tra loro 8 Vescovi, con il vicario generale, monsignor Franco Agnesi, gli altri membri del CEM, i Canonici del Capitolo metropolitano, i superiori ed educatori del Seminario con il rettore, monsignor Michele Di Tolve, i parroci che hanno accompagnato o accolto i diaconi nelle loro realtà, i diaconi permanenti, i seminaristi, i parenti e i fedeli delle Comunità di provenienza e di destinazione pastorale dei candidati. L’arcivescovo emerito, il cardinale Scola, manda un suo messaggio «di affetto, preghiera e benedizione».

Dopo la presentazione degli eletti, il vescovo Mario esprime, nell’omelia, la sua gratitudine a tutte le componenti rappresentate da chi ha di fronte in Cattedrale.

«Stiamo celebrando un evento che è motivo di meraviglia e di gratitudine perché smentisce le visioni deprimenti che, talora, si esprimono sul tempo che stiamo vivendo. Molti parlano di questo tempo come un tempo stremato dalla fatica di sopravvivere, assediato da problemi insolubili, spaventato dalle incertezze sul futuro, invecchiato nel suo egoismo sterile, suscettibile e impigliato in infiniti, meschini litigi. Io non so com’è il nostro tempo. Vedo, però, qui, un gruppetto di uomini, adulti, liberi e consapevoli che si fanno avanti», osserva subito l’Arcivescovo.

«Avanti» per servire Dio, imitando Gesù, entrando a far parte del Clero diocesano, collaborando con il Vescovo, traducendo in pratica le linee pastorali diocesane, in fraternità e unità di intenti con i confratelli e in mezzo alla gente.

​«Questi uomini che si fanno avanti e dicono questo “sì”, non vengono da un altro pianeta, ma da questa nostra terra; non sono eroi senza paura, non sono santi senza peccato, non sono personalità ineccepibili sotto ogni aspetto. Sono, come tutti, peccatori che chiedono perdono, persone fragili che riconoscono le loro paure, libertà incompiute che cercano la liberazione dalle meschinità e dalla tentazione di ripiegarsi su di sé. Sono uomini che nella loro grandezza e nella loro piccolezza dicono che questa terra, questa Chiesa, questo tempo è tempo di grazia, è una terra benedetta, è una Chiesa feconda che genera persone liete di fare della loro vita un dono».

Insomma, in questo tempo di egoismi, autoreferenzialità diffusa e depressione corrente – o forse, proprio per questo – una provocazione per tutti, un’indicazione e un’illuminazione (che si possono seguire senza essere eroi), in ogni caso, «un’evidenza convincente e promettente», per cui è anche giusto fare festa, ma non “spettacolo”.

«La ragione profonda della nostra festa è la manifestazione della gloria di Dio», per il dono che viene prima dell’incarico, che si è ricevuto e da cui dipendere. Dono che – nota il vescovo Mario – «rimane troppo spesso nelle espressioni convenzionali, senza strutturare la libertà delle persone nella forma della gratitudine e della docilità».

«La Chiesa ha bisogno della riforma che la renda lieta, grata, capace di irradiare gioia, perché vive del dono che riceve. La missione che alla Chiesa è stata affidata, perché il mondo creda, non si può compiere con la pretesa di convincere, con l’esibizione di un’intraprendenza che si raccomandi perché capace di supplire alle inadeguatezze delle altre istituzioni, con un’efficienza che conquista perché soddisfa a dei bisogni, e pratica la carità come una dimostrazione invece che come una intima necessità e come restituzione di un debito».

Poi l’ulteriore richiamo a «un tratto irrinunciabile della riforma della Chiesa»: l’unità «La comunione che raduna tutti i credenti deve manifestarsi nel Presbiterio. Tra i preti, il Vescovo e i diaconi, si deve riconoscere il volersi bene profondo e ordinario. Sarebbe paradossale che i servitori della comunione ecclesiale, cioè i membri del Clero, non si vogliano bene in modo evidente. Sarebbe sconcertante se gli uomini che predicano ai fedeli di amarsi e perdonarsi, che parlano dell’amore che unisce marito e moglie, genitori e figli, fratelli e sorelle, si rivelassero individualisti, litigiosi, divisi tra loro».

Quanto, al Pastore ambrosiano, stia a cuore questo aspetto, è evidente e ribadito. «Per il percorso di riforma della Chiesa io conto su di voi, ordinandi di oggi, e su tutti voi presbiteri e diaconi di tutte le età per questo segno irrinunciabile che è la sincerità dell’amore fraterno».

Da Atti 4, con il brano proclamato nella liturgia della Parola, l’esempio: «Per una comunione dei cuori e delle anime è necessaria la comunione di tutto quello che ciascuno possiede. La condivisione dei beni non è tanto la rinuncia al titolo di proprietà, ma è l’effettiva disponibilità a servire la comunità con tutte le proprie risorse. Nel libro degli Atti sembra che la priorità sia data ai beni materiali e anche questo non va dimenticato e ci interroga. Ma nella riforma della Chiesa, più che la cassa comune, è essenziale la rinuncia alla rivendicazione dei propri punti di vista, all’ambizione del protagonismo che esibisce la propria originalità invece della pazienza di decidere e operare insieme, attuare insieme le priorità pastorali che impegnano tutta la comunità. E’ necessaria la vigilanza di tutti e, persino, la correzione fraterna perché l’autoreferenzialità non diventi inappellabile, la preferenze non diventino puntigli, le sensibilità particolari non diventino criterio di estraniazione rispetto al cammino di Chiesa»..

Poi, i gesti, sempre suggestivi, della Liturgia dell’Ordinazione, con gli impegni degli eletti – il “Sì, lo voglio”, “Sì, lo prometto” -, le Litanie dei Santi, l’Imposizione delle mani nel silenzio della Cattedrale e la preghiera di Ordinazione, la vestizione degli abiti sacerdotali, l’Unzione crismale, la consegna simbolica del pane e del vino.

E, alla fine, l’applauso saluta gli ormai sacerdoti prima del pensiero conclusivo dell’Arcivescovo che allude alla situazione presente, senza l’emozione di conoscere la destinazione pastorale (i diaconi vi sono già inseriti dalla fine del giugno scorso, ma ricevono formalmente i documenti di incarico al termine della Messa, in Episcopio), senza scambio di abbracci, senza la tradizionale festa fuori del Duomo, tra manifesti (qualcuno c’è, però) e cori. Ma – ricorda il vescovo Mario – «si diventa preti per la gente. Non vorrei che questo trattenere i gesti trattenesse anche la fede e la gioia. Troviamo il modo per esprimere, anche in modo diverso dal solito, il fuoco che è stato acceso in voi e la simpatia di tutto il popolo cristiano».

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