A proposito della Lettera del Pontefice sugli abusi, il celebre teologo riflette sugli eccessi di clericalismo, «che si creano quando il prete non concepisce più il proprio ruolo di voler bene al popolo. Viviamo una prova dura, ma bisogna avere il coraggio di affrontarla»

di Annamaria BRACCINI

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Proseguendo nell’approfondimento della Lettera relativa al tema degli abusi, inviata da papa Francesco a tutto il popolo di Dio lo scorso 20 agosto, è monsignor Pierangelo Sequeri, teologo di fama internazionale e preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, a definire il senso di una riflessione che tocca direttamente il ruolo e il significato dell’essere preti oggi.

Di fronte alle recenti polemiche sviluppatesi intorno al Papa, anche all’interno della Chiesa, come promuovere la comunione sacerdotale per non creare ulteriori fraintendimenti e disorientamento tra la gente?
Deve essere rinsaldata la convinzione della forma cattolica: il Papa è il Papa e non è il mio compagno di banco o il collega della parrocchia vicina, pur nel rispetto dovuto a ciascuno. In questo momento ho la sensazione che ci sia bisogno di richiamarci a una tenuta emotiva, ma più specificamente, a un certo stile. La forma cattolica ha il suo impianto dottrinale per il quale ciascuno riveste un proprio ruolo; tuttavia c’è anche uno stile per farlo. Stile che, al momento, lascia un poco a desiderare, mentre è proprio lo stile a proteggere la forma cattolica perché è il modo pratico di comportarsi che non dà pretesto di ferirla. Trovo che, in questo senso, non vi sia scompostezza tra i sacerdoti e anche nella gerarchia, se non in qualche caso isolato, come è sempre esistito. Una cosa, però, va aggiunta: occorre avere un certo grado di trasparenza verso il popolo di Dio, rifiutarsi alla reticenza, ma anche al pettegolezzo. La gente ha diritto ad avere una parola pacata che spieghi gli eventi, pur conservando uno stile che non insegue le emozioni del momento.

Nella sua lettera il Papa dice che non ci si può rivolgere solo a un’élite: «È impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio». E aggiunge:«Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – quale è il clericalismo […]. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo». Come si può superare questo problema?
Bisogna ricordarsi che il clericalismo “migra” facilmente, per così dire, e che nemmeno i laici ne sono indenni. L’eccesso di clericalismo è l’eccesso di autoreferenzialità. Ciò accade quando il sacerdote non si concepisce più come qualcuno che ha il ruolo, anche autorevole, di voler bene al popolo e di fare in modo che il popolo di Dio si voglia bene. Questi due aspetti fondamentali, secondo me, devono essere un potente principio di autoregolazione. Così non ci si focalizza sulle proprie prerogative solo per un riconoscimento dell’autorità. Sembra una cosa semplice, ma, in verità, non è proprio banale perché il confine è sottile. Bisogna farsi aiutare e seminare degli antidoti. Il popolo di Dio non è soltanto il destinatario dei nostri sforzi o, qualche volta, l’ingombro delle nostre fatiche: è il nostro alleato. Noi presbiteri dobbiamo renderci conto che la scena fondamentale del Vangelo è fatta da Gesù, i discepoli e la folla che segue per ricevere una parola buona. Bisogna sentire questa complicità che si fa richiesta rivolta al sacerdote, non di un potere, ma del Pane, dello Spirito e del perdono. È assolutamente necessario tenere larga questa dimensione dell’alleanza, fino a confini che, come diceva Paolo VI, arrivano agli atei, a Zaccheo e alla Samaritana. Le mie pecore sono i complici, in senso buono, che mi tengono sulla rotta. Se il prete diventa il perno di un gruppetto e non dell’intera comunità, il clericalismo è già nato.

Oltretutto si tornerebbe a essere un punto di riferimento di elevato significato spirituale, con un ruolo appunto autorevole…  
Certo. Quello che sta succedendo in questo momento è terribile. A volte anche io – che pure sono anziano e ho visto molti eventi – mi domando, rivolgendomi a Dio, come posso fare per contribuire a espiare questi drammi che ci stanno avvelenando. È una prova dura, ma bisogna avere il coraggio di affrontarla. Noi rappresentiamo una comunità di gente pronta ad aiutare, a ricevere una buona parola, persone che si fidano e si affidano: non dobbiamo dimenticarle per i problemi, anche seri che, come in tutte le fasi della storia della Chiesa, si presentano magari con una dimensione prepotente. In questo momento, mi pare che sia in atto una sorta di protestantizzazione anomala della nostra custodia, come se dovessimo entrare e restare in una sorta di cittadella fortificata. Non si tratta di un protestantesimo nella sua anima autentica di trasmissione e ascolto della Parola di Dio, ma costruito su misura dei blog, della piazza, dove chiunque si sente autorizzato a etichettare gli altri di eresia.

Perché si è generata tale deriva?
Questo trend dipende, secondo me, dall’interruzione delle occasioni di riflessione su temi spirituali forti che abbiamo il compito di tenere vivi. Si ha come la percezione che la Chiesa, per gran parte anche in buona fede, parli più dei suoi problemi che non di ciò che deve condividere. Tutto un popolo e anche molti sacerdoti ne rimangono ingiustamente mortificati. In sintesi, quindi, occorre non ignorare le emergenze, anzi, svenarsi per espiare le nostre colpe, ma nello stesso tempo, avere a cuore uno stile di comportamento per non perdere la forma della fede. 

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