L'Arcivescovo ha presieduto la Celebrazione vespertina nella Cena del Signore, con cui inizia il Triduo Pasquale. Il tradizionale Rito della Lavanda dei piedi è stato compiuto su 12 piccoli cantori della Schola Cantorum della Cattedrale
di Annamaria BRACCINI
Nella penombra, il cardinale Scola, che ripete il gesto di Gesù nel corso dell’Ultima Cena, compie il Rito della Lavanda dei piedi su dodici piccoli cantori della Schola Cantorum della Cattedrale. Si apre così, in Duomo, il Triduo Pasquale con la Messa Vespertina in “Coena Domini” che ripercorre i momenti iniziali della Passione del Signore. Il Rito della Luce, a indicare l’irrompere della luce della Grazia, il canto, la tradizionale Lettura del profeta Giona, della Prima Lettera ai Corinzi, con il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, ma, soprattutto, della prima parte della Passione secondo Matteo – che proseguirà cronologicamente nella strutturazione liturgica, peculiare del Rito ambrosiano – immergono in profondità i tanti fedeli, riuniti in Cattedrale, nei tragici fatti e nei giorni santi di cui si fa memoria.
«Una “memoria” che è assai più di un ricordo, che sfida tempo e spazio e, nel Sacramento dell’Eucaristia, rende presenti gli eventi della Pasqua di Cristo. Memoria che è, quindi, quella di un amore che ci salva qui ed ora», riflette subito l’Arcivescovo all’avvio della sua omelia.
«Il comando di Gesù: “fate questo” non è tanto un nostro fare, ma è il nostro aderire al “fare” proprio dell’opera pasquale di Cristo. Siamo chiamati a conformarci a Gesù che muore in Croce, che dona il suo corpo e versa il suo sangue per la salvezza del mondo. Anche la carità che Egli ci comanda è un riconoscere la sua Presenza nell’altro, a partire dal più povero ed escluso. E non anzitutto una virtù che abbia in noi la sua origine».
Perché l’unica fonte di salvezza è, appunto, il Signore: infatti, «ciò che dà valore salvifico alla morte di Cristo non è l’atto cruento in sé, il fatto di morire, ma la consegna totale che Egli compie in quella terribile morte».
Egli, l’Innocente che poteva non morire e che, invece, lo fa per tutti noi. «Noi, peccatori che ci aggrappiamo, in questo Vespero, al palo ignominioso della croce – come in tante opere d’arte mostrano fare le donne ed in particolare la Maddalena – perché ci sentiamo responsabili del nostro male, ma sappiamo, nel contempo, che la nostra salvezza non viene da noi, ma da Lui. Per questo a Lui chiediamo il perdono che ci risollevi», scandisce il Cardinale.
Il richiamo è a papa Francesco, quando nel carcere di San Vittore, ai detenuti, per spiegare la sua presenza aveva detto: “In ognuno di voi vedo il volto di Gesù sofferente e ferito”.
«È questa un’espressione di amore per l’altro capace di abbracciare tutti, dai più intimi che vivono con noi ai più lontani, che magari stanno dando la loro vita, come è successo ai nostri fratelli Copti in Egitto e come sta succedendo ai giovani cristiani del Congo trucidati per lotte interne di potere», dice ancora l’Arcivescovo.
È nel dolore di ogni uomo che si riflette, allora, quell’immagine del Christus Patiens che, attraverso la bellezza della liturgia ambrosiana, possiamo quasi toccare e sentire vivo: «Come Gesù, la Chiesa vuole bere il calice, condividere il dolore e la sofferenza senza escludere nessuno. La Lavanda dei piedi ne è il segno».
Per questo, «Accogliere ed accompagnare, soprattutto nella prova, il fratello uomo è un dovere del Cristiano e di ogni uomo che cerchi con verità un senso al proprio vivere», conclude Scola che, al termine della Celebrazione, porta tra le mani, in processione, l’Eucaristia,deponendola presso l’altare della Riposizione dove resterà fino alla Veglia Pasquale. Qui si raccoglieranno i fedeli nei giorni di lutto e silenzio che precederanno il triplice annuncio della Risurrezione nella “madre di tutte le Veglie”.