L’intervento dell’Arcivescovo di Milano al Sinodo maronita, in corso a Beirut, sul martirio e la persecuzione dei cristiani. «L’unico linguaggio utilizzabile è quello umanitario: raccontare le sofferenze»
di Davide MILANI
Sono 40 vescovi i maroniti che attendono il cardinale Angelo Scola, riuniti per celebrare il loro sinodo. Apparentemente un “normale” raduno di vescovi, in realtà è il convergere di pastori che guidano chiese in ogni angolo del mondo. Ogni anno si ritrovano con il loro Patriarca, il cardinale Béchara Boutros Raï, a Jenuah, la “casa madre” dei maroniti sparsi nei cinque continenti, ai piedi della montagna che ospita il santuario di Arissa, Nostra Signora del Libano.
E allora camminando tra i portici in pietra chiara del Patriarcato, oltre ai vescovi maroniti della regione, si incontrano quelli che guidano le diocesi dove vivono i connazionali emigrati nei decenni dalla madrepatria: Georges Abi Younes ora in Messico, Elias Zaidan dalla California, Gregory Mansour a New York, Anthony Tarabay dall’Australia, Marwan Tabe in Canada, Maroun Nasser Gemayel in Francia, a Parigi, Edgar Madi Brasile, Habin Chamieh in Argentina, Francais Eid dall’Egitto…
Si sperimenta il significato profondo di cattolicità, pur celebrando la Messa in arabo secondo l’antichissimo, suggestivo e del tutto particolare rito maronita, che discosta assai dal rito romano e da quello ambrosiano.
Iniziando il suo intervento in assemblea, il cardinale Scola ha ricordato anzitutto l’ultimo suo viaggio in Libano, nel giugno 2010. «Da allora quante cose sono cambiate, nel giro di cinque soli anni, e purtroppo generalmente in peggio! Il paesaggio umano è sconvolto, tanto da risultare a tratti irriconoscibile, e di fronte alla prova che le comunità cristiane stanno vivendo soprattutto in Siria e Iraq, ma più in generale in tutto il Medio Oriente, mancano le parole. Ma tacere sarebbe fare il gioco dei persecutori».
Ecco che allora l’Arcivescovo di Milano ha proposto tre riflessioni, centrate incontro a tre parole: martirio, vittoria, occidente.
Il primo pensiero del cardinale Scola è stato sul martirio, con una «profonda gratitudine per la testimonianza di attaccamento a Cristo che le chiese orientali, cattoliche e non cattoliche, stanno rendendo di fronte al mondo. È una testimonianza che giunge non di rado fino al martirio e i cui effetti, nella Chiesa e fuori di essa, non possiamo ora misurare. I mezzi di comunicazione, che tante volte si trasformano in strumenti di propaganda terroristica, consapevole o inconsapevole, diffondono questi acta martyrum contemporanei con un’immediatezza (e una crudezza a volte) che le narrazioni dei primi secoli ci facevano solo intuire».
«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani – ha aggiunto Scola citando Tertulliano. -Ma una cosa, e una soltanto, può impedire questa generazione: è la divisione tra i discepoli. Il momento tragico che investe la regione può diventare allora un’occasione propizia per accantonare quanto separa e ricercare quello che unisce».
Entrando ancor di più nelle problematiche del Medio Oriente, Scola ha introdotto la seconda parola: vittoria.
«Qui e non soltanto qui, si cerca ovunque la vittoria attraverso la sopraffazione e l’annientamento dell’avversario. Ma vediamo bene che questa via conduce solo a morte e distruzione. Molti politici e uomini di religione mirano a costruire una società completamente omogenea. E così in Iraq e Siria i miliziani jihadisti cacciano i cristiani e le altre minoranze religiose, quando non le eliminano fisicamente, e ne distruggono le tracce. Il problema è che il processo di “de-umanizzazione” non si ferma lì. Dopo i non-musulmani, è la volta dei musulmani di diversa confessione (sunniti contro sciiti e viceversa), poi dei musulmani “devianti”, perché magari appartengono agli ordini mistici, infine di tutti coloro che non possono esibire una perfetta ortoprassi, secondo uno schema d’intolleranza progressiva già visto molte volte all’opera.
Di fronte a questo progetto penso che i cristiani, e prima di tutti i cristiani orientali, debbano continuare a dire un chiaro “no!”. Non è questa la strada che Dio vuole per il Medio Oriente. Più omogeneità non significa meno conflitti, perché ci sarà sempre qualcuno “più fondamentalista di me” che cercherà di piegarmi al suo credo. È forse in pace la Somalia, per il fatto di essere al 100% musulmana sunnita? O l’Afghanistan dei talebani? Ha portato bene al Pakistan essersi prefissato l’obiettivo di creare uno Stato islamico? È saggia la politica israeliana che negli ultimi anni accentua a ogni costo l’ebraicità dello Stato? La nostra vittoria è la Pasqua, è il Crocifisso Risorto che accetta di portare su di sé il peccato del mondo e con la sua obbedienza distrugge il corpo del peccato».
L’ultima riflessione dell’Arcivescovo di Milano ha riguardato l’Occidente, laddove «esiste una reale difficoltà a comprendere quanto sta avvenendo in questa regione. Si pensa di sapere già, di avere la chiave per interpretare i fatti. E si commettono così errori grossolani di valutazione. L’occidentale medio non è in grado di pensare una guerra di religione, anche per la sua storia passata, e ragiona unicamente secondo gli assoluti di democrazia e tirannide, senza percepire la necessità di cooperare con tutte quelle forze che si oppongono, per le più varie ragioni, al genocidio fisico e culturale perpetrato da ISIS e dagli Stati che, direttamente o indirettamente, la sostengono nel criminale progetto di un Medio Oriente mono-colore.
Per questo temo sia fatica sprecata cercare di porre la questione, anche con i governi occidentali, in termini di diritto a difendersi. L’unico linguaggio che mi pare resti utilizzabile è quello umanitario: raccontare le sofferenze. Suggerirei pertanto d’individuare alcuni casi particolarmente eclatanti su cui sollecitare un intervento internazionale. Penso in particolare ad Aleppo, che è già diventata la nuova Sarajevo del XXI secolo. La proposta di aprire un corridoio umanitario per alleviare le sofferenze di questa città, prima che finisca anch’essa in mano a ISIS, potrebbe avere qualche possibilità di successo anche a livello mediatico. Di più, realisticamente, non mi pare possibile sperare, nel quadro d’immobilismo internazionale imbarazzante e miope che purtroppo domina».
Molto ricco il dibattito con i vescovi che ne è scaturito, e che ha toccato – tra gli altri – il tema dell’immigrazione sulle coste italiane e la chiusura dell’Europa nei confronti dell’accoglienza e il fenomeno di chi dal vecchio continente viene in Medio oriente a combattere sposando la causa di Isis.
Certe chiusure dell’Italia e dei paesi europei davanti a poche decine di migliaia di disperati che scappano da guerre, persecuzioni e miseria sono incomprensibili in un paese come il Libano, meno di 4 milioni di abitanti, che accoglie quasi due milioni di profughi siriani.
Il cardinale Scola ricorda, sottolineato da un applauso, delle tre chiese che la Diocesi ambrosiana ha “donato” ai maroniti di Milano.
Si parla del ruolo della Fondazione Oasis, conosciuta da molto vescovi maroniti e rappresentata qui oltre che dal presidente il cardinale Scola dal direttore scientifico Martino Diez e dalla direttrice editoriale MariaLaura Conte.
E dal cardinale Scola arriva una raccomandazione «ai cari confratelli vescovi»: «raccontate quello che vivete. La vostra testimonianza per noi è fondamentale»
E nel pomeriggio l’incontro con la commissione episcopale della famiglia delle Diocesi libanesi. Un centinaio tra laici e sacerdoti hanno ascoltato l’intervento del cardinale Scola (integrale on line) e hanno dialogato con lui.