Il Cardinale, ricordando il Venerabile Giuseppe Lazzati nel 28° anniversario della scomparsa, ne ha ripercorso la figura e l’insegnamento, con una riflessione dedicata al tema “Per una santità laicale”

di Annamaria BRACCINI

Giuseppe Lazzati

Il significato dell’“indole secolare del fedele laico”, la pluriformità nell’unità, la testimonianza nella Chiesa ognuno con propri carismi, ma sempre consapevoli della dimensione storica nella quale ci si trova a vivere e a operare. È questo il filo rosso che intesse la trama dell’articolata e approfondita riflessione con cui il cardinale Scola interviene alla mattinata di preghiera e studio dedicata al venerabile Giuseppe Lazzati, nel giorno in cui si commemora il 28° anniversario della sua scomparsa. Ci sono i parenti, il postulatore della Causa, Confalonieri, alcuni docenti della “Cattolica”, chi lo ha conosciuto e chi ne coltiva la memoria, presso la sede dell’Azione Cattolica Ambrosiana, nell’assise, preceduta dalla celebrazione eucaristica presieduta da don Giuseppe Grampa, l’Arcivescovo affronta, così, il tema della santità laicale, delineato in un preciso orizzonte di rimandi al Magistero e ai documenti conciliari.
Nel contesto di un rilancio della Fondazione Giuseppe Lazzati – che ha lasciato la sede di Corsia dei Servi a Milano e intende proporre percorsi di conoscenza e formazione all’Eremo San Salvatore – il presidente dell’Istituto secolare “Cristo Re”, Giorgio Mazzola, parla di vita come vocazione, come fu appunto quella lazzatiana. «Facciamo che questo incontro sia luogo di memoria costruttiva», spiega. «nel momento in cui, a Venezia, si celebrano le esequie, del cardinale Cè, predecessore del Cardinale Scola come Patriarca di Venezia e «al quale Lazzati era molto legato».
Da un ricordo giovanile prende avvio l’Arcivescovo: «Il nome del professor Lazzati l’ho incontrato quando non avevo ancora 15 anni e il mio parroco mi chiese di spiegare ai giovani di Malgrate lo scritto “Consecratio Mundi” ; poi, nell’Azione Cattolica, quando ero presidente diocesano della Fuci, in Università e attraverso alcuni convegni, ebbi modo di conoscerlo più a lungo e meglio».
Al di là delle memorie personali, tuttavia, il riferimento, per illuminare la figura e l’azione lazzatiana, è nel Concilio e nella sua ricezione, ripercorsa attraverso la Costituzione dogmatica “Lumen Gentium”, 41 – “Ognuno, secondo i propri doni e uffici, deve senza indugi, avanzare per la via della fede viva” –; al numero 31, in cui si specifica il profilo dei fedeli laici, con una proposizione, nota l’Arcivescovo, peraltro ripensata radicalmente, nel 1988, nell’Esortazione Apostolioca “Christifidels Laici” , e al numero 33.
«Ciascuno è chiamato a vivere l’unica santità, ma in un contesto e in un modo specifico». Questo il il riferimento necessario per comprendere la passione laicale di Lazzati e la sua esemplarità da inserire, oggi, «nel quadro unificante di un’ecclesiologia di comunione». E sottolinea, allora, il Cardinale il principio fondante della «pluriformità nell’unità, quale metodo attuativo della communio e della circolarità degli stati di vita, dove nessuno può essere compreso come separato dagli altri». Posizione, questa, non a caso, condivisa e promossa da Lazzati stesso nella raccolta di scritti “Laici cristiani nella città dell’uomo”, in cui si evidenzia l’urgenza di un’ecclesiologia di comunione.
«La vita come vocazione identifica molto bene un tale elemento», osserva Scola, pur non nascondendo «l’affaticamento attuale della pastorale vocazionale», che nasce appunto dal non riuscire più a concepire la vita come un vocazione unitaria fin dalla gioventù.
Insomma, lo sfondo in cui situare la lezione del Venerabile è chiaro: siamo tutti, come battezzati, chiamati alla santità nel servizio all’unico Dio, pur con compiti differenti. Una prospettiva già definita da Lazzati in quel saggio antico di oltre mezzo secolo fa, appunto, la “Consecratio mundi”. «Agire – scandisce Scola – nella distinzione di funzioni, ministeri, uffici, carismi ordinati, senza perdere l’unità, nell’essere della Chiesa e nell’agire del popolo di Dio. Occorre intendere la santità cristiana in tutta la sua organica pienezza premettendo l’unità come salvaguardia delle differenze degli stati di vita».
In un tale ambito, il Sinodo del 1987 proprio sulla missione dei laici nella Chiesa in cui l’Arcivescovo era perito) e “Christifideles Laici”, offrono un sintesi fondamentale di chi sia il fedele laico – i due termini non sono mai disgiunti – e di cosa significhi la sua indole secolare.
«Mi è parso», specifica l’Arcivescovo, «di trovare nel testamento del Venerabile questo stesso convincimento, specie nel paragrafo in cui lega l’amore vicendevole alla testimonianza». Testimonianza che è molto di più di “un buon esempio”, seppur necessario, e che chiama in gioco per intero il carattere dell’“indole secolare del laico” come è indicata dal Magistero. «Anzitutto, la Chiesa stessa possiede una dimensione secolare, perché è inviata da Cristo al mondo, mondo alla cui santificazione i laici sono chiamati a contribuire nella loro condizione ordinaria sociale». Si radica qui quel concetto della testimonianza di cui già parlava Romano Guardini – “La Chiesa deve rinascere dalle anime” , ossia dalle persone -, e che ben aveva compreso il Professore, infatti, ancorato a un’idea di secolarità immersa nella storia concreta. Come indica il Magistero di papa Benedetto, «ciò vuol dire assumere e saper interpretare le condizioni che ogni epoca della storia propone: pensiamo solo alla fase di trapasso di millennio che stiamo vivendo dopo l’epoca delle ideologie e la caduta dei Muri. L’indole secolare deve misurarsi con fenomeni come il meticciato, le neuroscienze, la pervasività della finanza, il non volere veramente risolvere il problema della fame e della povertà. Occorre riscrivere nell’oggi della storia questa indole». Una scelta, questa, perseguita dalla nostra Chiesa attraverso il racconto di ciò in cui crediamo, di Gesù come Vangelo dell’umano, del Dio vicino nel campo che è il mondo.
«Un racconto che non lede nessun diritto, che viene proposto liberamente, ma che è per noi un dovere in una società tendenzialmente conflittuale per le tante visioni del mondo che vi convivono. Grande è la responsabilità dei laici di comunicare la fede in ogni ambiente, investendo tutti gli ambiti con uno stile in vista capace di generare un nuovo umanesimo». Lazzati ne era convinto. Le parole di un suo articolo su “L’Osservatore romano” del 1979, che il Cardinale ripete in conclusione, ne sono la prova più bella. Quale è il profilo del vero credente? “L’unità e insieme la fierezza di chi trova un sicuro ancoraggio nelle certezze della rivelazione cristiana, la fonte più originaria e costituiva della dignità dell’uomo. L’umiltà di chi, consapevole del carattere gratuito della fede come dono di Dio, ne fa motivo e stimolo di un discreto servizio all’uomo nella libertà”.
Unità, libertà, semplificazione, dunque, come suggerisce papa Francesco e come si deve fare anche in una Chiesa locale grande come la nostra.
Su questo, dopo qualche domanda dal pubblico, il Cardinale non usa mezzi termini: «Tanta attività mi pare che non sia talvolta capace di intercettare la domanda di senso che viene dalle generazioni intermedie che sono, tuttavia, proprio quelle chiamate a portare il peso della responsabilità ecclesiale e civile. Non si tratta di “non agire”, ma di spostare il baricentro dell’azione, sul “perché” e “per Chi” operiamo, con un’apertura a 360gradi su ogni aspetto della vita. Così saremo più convincenti anche per le nuove generazioni, il cui problema non è la disponibilità ad ascoltare, ma la fragilità di fondo, la “tenuta” nelle difficoltà. Per questo c’è bisogno di madri e padri, di adulti consapevoli del loro compito».
Il dovere di un laicato è, appunto, questo.

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