Presiedendo in Cattedrale la Celebrazione Eucaristica nella quarta Domenica dell’Avvento ambrosiano, il Cardinale ha chiesto di pregare «per i vivi e per i morti», il cui culto, spesso dimenticato, rimane cruciale anche per la civiltà di oggi
di Annamaria BRACCINI
La speranza “ardente” che vive, nonostante tutto, nel cuore umano perché abbiamo un Dio vicino. Speranza che, come dice san Tommaso, è «un’attesa certa del proprio compimento, della propria realizzazione e di tutta la realtà», speranza che è il nome stesso «dell’attesa cristiana».
È con un appello a coltivare ciò di cui abbiamo tanto bisogno «in questo momento attraversato da paure e da angoscia», che il cardinale Scola si rivolge ai moltissimi riuniti per la Celebrazione eucaristica della quarta Domenica dell’Avvento ambrosiano.
Fedeli, famiglie, gente di tutte le età, aderenti ai movimenti e articolazioni ecclesiali come quelli che sono stati, per l’occasione, specificatamente invitati ad animare la liturgia, le Cellule Parrocchiali di Evangelizzazione, l’Opus Dei, presente in Cattedrale tutta la settimana per la Novena dell’Immacolata, e Acos (Associazione Cattolica Operatori Sanitari). Insomma, quel popolo di Dio che l’Arcivescovo ringrazia perché «ha accettato la speranza come movente dell’azione contro la paura: un segno bello della fede del nostro popolo», scandisce.
«Entriamo nella quarta settimana di Avvento e la nostra attesa-speranza si fa sempre più intensa. Il tempo che ci separa dalla venuta del Salvatore è sempre più breve», ricorda il Cardinale, richiamando con forza un «Dio profondamente vicino, che è sopra di noi nella Trinità, con noi nella Celebrazione che stiamo vivendo, in noi quando riceviamo la Comunione». Un essere sempre con noi, dunque, ben esemplificato dal titolo della quarta Domenica, “L’ingresso del Messia”.
«Gesù non entra nella città di Davide con il cavallo da guerra, come fanno i principi e i re conquistatori, ma entra con un puledro non ancora cavalcato da nessuno – perché destinato appunto a un re – facendo una scelta cui aveva fatto riferimento il profeta Zaccaria per indicare il principe della pace non il dominatore attraverso il potere della guerra. Il Messia entra in Gerusalemme non per prendervi possesso secondo la logica del potere mondano, ma per dare la propria vita da innocente, così la sua onnipotenza si rivela nell’assunzione della più radicale umanità».
Dunque, Gesù vero Dio che è vero uomo, acclamato, nell’entrata a Gerusalemme, dalla folla dei discepoli che rimanda all’annuncio ai pastori, «qui, però, non più in riferimento alla terra, ma solo al cielo». Quel cielo, «luogo della pace sicura e definitiva, a cui siamo tutti destinati e che, per questo, ci dà l’energia di cercare tale pace con tutte le forze anche su questa terra».
Ecco perché, suggerisce Scola, «il cristiano deve sempre essere un uomo di pace, essendo figlio di Colui che è la pace stessa, avendo una prospettiva personale e sociale della pace definitiva per poi portarla a tutti i fratelli e sorelle. Così può realmente intendersi di cosa sia la pace, anche se rischiamo sempre di tradirla a partire dai rapporti più intimi e personali».
Dalla Lettura di Isaia, «con lo sguardo di Cristo sul creato, trasparente e luminoso, al quale tutti dobbiamo imparare a tendere, come ci ha ricordato il Papa nell’Enciclica “Laudato sì’”, che è punto di riferimento per l’incontro mondiale sul clima in atto a Parigi», nasce un’ulteriore riflessione sul concetto di speranza. «È un grande invito fondato sulla presenza di un “resto” di Israele aperto all’azione purificatrice di Dio. Il “resto” non è l’insieme dei perfetti, ma il popolo semplice, come noi siamo, di coloro che sono consapevoli della loro immeritata elezione, cioè consapevoli della misericordia di Dio. Ed il “resto” vive in funzione di tutti, come pegno della promessa rivolta a ciascuno», sottolinea, infatti, l’Arcivescovo.
Ovvio che ciò non possa valere solo per Israele, ma anche per i cristiani a rischio di ridursi «ancor di più a piccolo resto», ma con la coscienza di un “per tutti” «che rianima le nostre persone».
E se è Gesù, per primo, che «si è fatto solidale con i suoi fratelli in umanità dal primo istante del suo concepimento fino all’abbassamento della morte». Se è Lui che, non in forza della sofferenza o dell’umiliazione mortale prese in se stesse – questo molto consolante per noi – ma per il fatto che, mediante esse, Egli è divenuto solidale con i suoi fratelli passati, presenti e futuri», a noi rimane l’impegno di una speranza che è, appunto, per sua natura, solidale.
«Nell’esperienza di tutti i giorni siamo attirati alla stessa gloria di Cristo e per questo non siamo più schiavi della morte, ma destinati a finire nell’abbraccio trinitario, nella casa dalle tante porte aperte. Non possiamo non sperare per tutti e per questo dobbiamo pregare. È questa speranza solidale che ci aiuta a vincere la comprensibile paura per gli orrendi atti terroristici che continuano ad insanguinare, insieme alle guerre, varie regioni del mondo».
Da qui il modo per vivere l’Anno santo che ci sta davanti. «Il Giubileo, che aprirà il Santo Padre a Roma e noi domenica prossima in questo Duomo, ci aiuti a entrare nel rapporto con Gesù, nella profondità del suo rapporto con noi e della nostra fede.
Due, infine le opere di misericordia corporale e spirituale che il Cardinale indica: «Seppellire i morti e pregare Dio per i vivi e per i morti. Esperienze che sono spiccate espressioni di questa solidarietà tra gli uomini e che hanno un carattere cruciale nell’umana esperienza, tanto inevitabile quanto tendenzialmente rimosso dalla nostra cultura. Non lasciamole cadere nell’anonimato e nemmeno in un individualismo sentimentale, perché una solida civiltà ha bisogno di un raccordo continuo, stabile e pubblico con i suoi morti».