L’Arcivescovo ha incontrato la Commissione episcopale per la famiglia e la vita e i responsabili dei Centri di preparazione al matrimonio e dei Centri di ascolto e accompagnamento delle coppie e famiglie in difficoltà. Pubblichiamo il suo intervento
del cardinale Angelo SCOLA
Arcivescovo di Milano
In Libano, nel corso del suo viaggio in Medio Oriente, dopo l’intervento al Sinodo maronita, l’Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, ha incontrato la Commissione episcopale per la famiglia e la vita e i responsabili dei Centri di preparazione al matrimonio e dei Centri di ascolto e accompagnamento delle coppie e famiglie in difficoltà. Di seguito il suo intervento, intitolato «Il matrimonio e la famiglia nell’esperienza di un Vescovo»
1. Introduzione
Gli organizzatori dell’incontro di questo pomeriggio mi hanno chiesto di proporvi alcune riflessioni su matrimonio e famiglia a partire dalla mia esperienza personale, in particolare dal mio lavoro come Vescovo Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia – presso la Pontificia Università Lateranense in Roma – dal 1995 al 2002 -; quindi – dal 2003 al presente – come Patriarca di Venezia prima e Arcivescovo di Milano poi, specialmente in riferimento all’Incontro Mondiale delle Famiglie che ebbe luogo a Milano nel 2012 alla presenza di Papa Benedetto XVI. Si potrebbe inoltre aggiungere l’esperienza di docente presso l’Istituto e, soprattutto, il ministero pastorale sia come sacerdote sia – dai tempi di Grosseto – come Vescovo.
Il mio intervento, tuttavia, non sarà un racconto di aneddoti o esperienze: tenendo senz’altro conto del percorso che ho personalmente compiuto, cercherò di individuare alcune attenzioni di fondo che mi sembrano di capitale importanza per il vostro lavoro.
Le questioni scottanti potranno emergere durante il dialogo che seguirà alla mia esposizione.
2. L’intuizione di un Santo
Nel variegato panorama accademico di Istituti per la Famiglia, il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, fondato da San Giovanni Paolo II nell’anno 1981, gode di un privilegio singolare. Esso, infatti, è stato personalmente voluto e fondato da un Papa Santo che, fin dai primi anni del suo ministero a Cracovia, ha dedicato moltissime delle proprie energie sacerdotali ai fidanzati e ai giovani sposi, percependo acutamente «sul campo» l’urgenza di una particolare cura pastorale per il matrimonio e la famiglia.
In un discorso rivolto ai docenti dell’Istituto provenienti da tutto il mondo, Giovanni Paolo II ricordava che «questa relazione tra pensiero e vita, tra teologia e pastorale, è veramente decisiva. Se guardo alla mia stessa esperienza, non mi è difficile riconoscere quanto il lavoro svolto con i giovani nella pastorale universitaria di Cracovia mi abbia aiutato nella meditazione su aspetti fondamentali della vita cristiana. La quotidiana convivenza con i giovani, la possibilità di accompagnarli nelle loro gioie e nelle loro fatiche, il loro desiderio di vivere pienamente la vocazione alla quale il Signore li chiamava, mi aiutarono a comprendere sempre più profondamente la verità che l’uomo cresce e matura nell’amore, cioè nel dono di sé, e che proprio nel donarsi riceve in cambio la possibilità del proprio compimento».
Alla luce dell’intuizione originale di San Giovanni Paolo II è possibile identificare le due esperienze a cui il lavoro dell’Istituto si è sempre riferito. Sono due esperienze che potrete riconoscere con facilità anche nelle attività che svolgete come membri della Commissione Episcopale e dei Centri di Preparazione al Matrimonio o di Ascolto e Accompagnamento delle coppie e famiglie in difficoltà.
3. Due “esperienze” fondamentali
a) Universalità dell’esperienza dell’amore
Anzitutto si deve riconoscere un dato elementare: nessun uomo – al di là di ogni possibile differenza di cultura, di geografia, di età, di etnia, di religione… – è lontano dall’esperienza dell’amore. Essa riguarda ed è in un certo senso, propria di ogni uomo e donna di ogni luogo e tempo.
Papa Benedetto XVI l’ha ricordato in modo particolare dedicando la sua prima enciclica ad «alcuni dati essenziali sull’amore che Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all’uomo, insieme all’intrinseco legame di quell’Amore con la realtà dell’amore umano», nonché all’«esercizio ecclesiale del comandamento dell’amore per il prossimo». Egli richiamava così una delle intuizioni centrali del suo predecessore: «In tutta questa molteplicità di significati, (…) l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono».
I pensatori più acuti hanno sempre riconosciuto la ricchezza inesauribile dell’esperienza dell’amore. Celebre è l’immagine suggerita a questo proposito dal filosofo russo Evdokimov: «Nessuno tra i poeti ed i pensatori ha trovato la risposta della domanda: “Che cosa è l’amore?” (…) Volete imprigionare la luce? Vi sfuggirà di tra le dita». Eppure una strada per conoscere l’amore esiste. Una strada in grado di portare a unità le molteplici esperienze che stanno sotto questa parola. Sulla scia dell’insegnamento delle famose, ma ancora poco approfondite, Catechesi sull’amore umano di Giovanni Paolo II, possiamo affermare a chiare lettere: l’amore che può sorgere dall’incontro di un uomo con una donna è, per così dire, il paradigma di ogni amore. Ogni altra forma d’amore trova lì il suo modello. Per imparare cos’è l’amore dobbiamo quindi guardare all’autentico rapporto d’amore tra l’uomo e la donna. Una affermazione coraggiosa, tutt’altro che ovvia. Basti pensare che grandi teologi, come sant’Agostino e san Tommaso, resistettero in modo deciso a servirsi dell’analogia della famiglia – che dell’amore è la realizzazione umana più imponente – per parlare della Trinità.
Si capisce bene, allora, perché la Chiesa non cessi di custodire e di proporre a tutti gli uomini la verità della differenza sessuale, del dono di sé e dell’apertura alla vita. Solo se si tengono saldamente uniti questi tre fattori del “mistero nuziale” si apre la possibilità di imparare l’amore! E si comprende anche la ragione profonda per cui Papa Francesco ha voluto dedicare due Assemblee del Sinodo dei Vescovi, una straordinaria e l’altra ordinaria, alla famiglia.
Chinarsi a riflettere sull’esperienza dell’amore diventa così una via privilegiata di incontro con i nostri fratelli uomini.
b) L’amore quale via d’accesso al mistero di Dio
Anche la seconda esperienza a cui mi voglio riferire è rintracciabile nel n. 5 della Deus caritas est. Scrive Benedetto XVI: «Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere». Nell’esperienza dell’amore, infatti, si schiude per l’uomo e per la donna il carattere misterioso dell’umana esistenza. L’aggettivo “misterioso” non rimanda qui all’ignoto, ma segnala piuttosto l’apertura all’Autore della vita. Il singolare intreccio di tempo ed eternità che si attua nell’esperienza dell’amore – ben espresso nell’accorato voto dell’amante per l’amata: “Tu non devi finire!”– dice di quest’apertura alla realtà trascendente. Per la natura finita e ferita dell’umana libertà tale apertura all’infinito implica il passaggio attraverso la fatica e il sacrificio. In proposito sono di grande bellezza e profondità le parole che il poeta Paul Claudel, in La scarpina di raso, pone sulle labbra del gesuita che prima di morire prega per suo fratello: «Legalo col peso di codesto altro essere (…) così bello che lo chiama attraverso la distanza».
È possibile, pertanto, riconoscere all’esperienza dell’amore la capacità di illuminare il mistero di Dio. Ovviamente questo non significa situare Dio e l’uomo sullo stesso piano! Significa, piuttosto, riprendere e attualizzare l’affermazione dell’analogia, di capitale importanza per la storia del pensiero. All’uomo è possibile riconoscere Dio perché Egli si manifesta nella realtà tutta e si rivela in modo speciale nella storia di salvezza che, attraverso il popolo eletto, ha voluto intraprendere con l’intera famiglia umana.
In tal modo si consolida il terreno su cui costruire la via per sondare il mistero dell’amore. L’unità dell’amore offre, infatti, sia la possibilità di risalire dall’esperienza dell’amore umano al mistero della Vita trinitaria (ana-logia), sia di illuminare – a partire da questo mistero, manifestatosi gratuitamente e pienamente in Gesù Cristo – la stessa esperienza dell’amore umano (cata-logia).
Le conseguenze di tale affermazione sono imponenti. Qui è sufficiente segnalarne una decisiva: non c’è separazione tra l’umano e il cristiano. Il cristianesimo è nell’interesse sommo dell’uomo. La fede cristiana è antropologicamente, socialmente e cosmologicamente rilevante. Un dato, questo, su cui dovrebbe fondarsi il rinnovamento delle comunità ecclesiali.
4. La famiglia come via maestra
Vorrei ora sottolineare un altro aspetto, emerso progressivamente negli anni del mio ministero episcopale, che ha trovato nella celebrazione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie a Milano, dal 30 maggio al 3 giugno del 2012, una formulazione particolarmente felice.
Come ricorderete, il tema dell’Incontro era La famiglia: il lavoro e la festa; con riferimento al quadro delle indicazioni pastorali emerse dal IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana “Testimoni di Gesù Risorto, Speranza del mondo” (Verona, 16-20 ottobre 2006). In quell’occasione si scelse di prestare attenzione ai seguenti cinque ambiti: la vita affettiva e la famiglia, il lavoro e la festa, l’educazione e la cultura, le condizioni di povertà e di malattia, i doveri e le responsabilità della vita sociale e politica. Lo scopo era quello di «non perdere di vista nella nostra azione pastorale il collegamento tra la fede e la vita quotidiana, tra la proposta del Vangelo e quelle preoccupazioni e aspirazioni che stanno più a cuore alla gente» (Benedetto XVI, Discorso alla fiera di Verona 19 ottobre 2006).
Il titolo del VII Incontro mondiale delle famiglie, collegando i tre aspetti fondamentali della vita quotidiana di ogni uomo – famiglia, lavoro, riposo (festa) – ha fatto emergere con forza due tratti costitutivi, anche se spesso trascurati, dell’umana esperienza, a tutte le latitudini: l’unità della persona e il suo essere sempre in relazione.
La famiglia fondata sul matrimonio fedele tra un uomo e una donna e aperta alla vita, al di là di tutte le evoluzioni culturali che la caratterizzano, continua a imporsi come via maestra per la generazione e la crescita della persona. In essa il bambino, chiamato per nome, impara a dire “io”. Assicurato dall’amore del papà e della mamma, fin dai primi passi, intravvede il futuro come promessa. Sulla base di tale certezza si dispone al compito che la vita domanda, senza temerne il sacrificio. In tal modo, fin dalla prima infanzia tutti scopriamo il senso del lavoro, prima nella sua versione scolastica e poi come professione. Attraverso il lavoro, dilatando i rapporti primari vissuti in famiglia, sviluppiamo relazioni sociali articolate che, nell’attuale civiltà delle reti, investono il mondo intero. Troviamo il gusto dell’edificazione utilizzando le straordinarie possibilità che le varie scienze e le tecnologie ci offrono. Ma, soprattutto, assaporiamo la fiducia reciproca, imprescindibile collante della convivenza tra gli uomini.
La vita ci impone il suo passo, spesso affannoso, e domanda un ordine tra affetti e lavoro. In questo ci aiuta il riposo, che ne scandisce il ritmo. Nel volto familiare delle persone amate ritroviamo l’energia per immergerci nel lavoro quotidiano. La festa è il vertice del riposo, per l’uso gratuito e comune del tempo e dello spazio che è fonte di gioia. L’uomo si riconcilia con sé, con gli altri e con Dio. Non a caso alla festa si sono sempre volte tutte le tradizioni religiose. La nostra ha sempre avuto nella Domenica il suo tratto distintivo.
5. La famiglia soggetto di evangelizzazione
Concludo con qualche breve riflessione che è nata soprattutto a partire dalla mia partecipazione all’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi nel mese di ottobre 2014.
L’idea centrale emersa dai lavori dell’Assemblea Straordinaria, che rischia di essere data per scontata, è la seguente: la pastorale della Chiesa è chiamata a passare dalla famiglia come semplice “oggetto” della cura pastorale alla famiglia come “soggetto” della pastorale e della evangelizzazione. È questo il nodo centrale che l’assise vaticana del prossimo ottobre è chiamata ad approfondire.
Con tale affermazione non si intende ovviamente sottovalutare gli importanti passi compiuti, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, nella cura pastorale della famiglia. Le numerose realtà sorte per questo scopo hanno avuto e mantengono la loro rilevanza. Tuttavia l’attuale fase storica, oltre a una più completa recezione del magistero e all’approfondimento della teologia della famiglia, esige che la famiglia in quanto tale diventi soggetto privilegiato, in qualche modo centrale, della normale azione pastorale della Chiesa.
La famiglia come soggetto di evangelizzazione «assume per la Chiesa un’importanza del tutto particolare e nel momento in cui tutti i credenti sono invitati a uscire da se stessi è necessario che la famiglia si riscopra come soggetto imprescindibile per l’evangelizzazione. Il pensiero va alla testimonianza missionaria di tante famiglie». La famiglia è, per ciascuno dei suoi membri, peculiare soggetto educativo e di trasmissione della fede. E ciò in forza della grazia sacramentale del matrimonio che, se assunta, trasforma i componenti sia come singoli, sia in tutte le loro relazioni. Non porre al centro questo dato conduce inevitabilmente a una concezione e a una pratica volontaristica della missione della famiglia. Radicando, invece, tale compito nel sacramento del matrimonio vissuto attraverso la testimonianza quotidiana, si dà giusto rilievo all’azione pastorale della famiglia e nello stesso tempo si apre una strada alla tanto invocata, ma forse poco attuata, valorizzazione dei fedeli laici.
Parlare di famiglia come soggetto di evangelizzazione non significa anzitutto coinvolgerne i membri, magari singolarmente, come attori di iniziative in parrocchia o nelle aggregazioni di fedeli, fosse pure in gruppi familiari; si tratta invece di mobilitare “la famiglia in quanto famiglia” (genitori, figli, nonni, parenti) alla testimonianza evangelica, attraverso gli aspetti normali e costitutivi della vita quotidiana: gli affetti, il lavoro, il riposo, il dolore, il male fisico fino alla morte, il male morale, l’educazione, l’edificazione di comunità ecclesiali aperte (in uscita, ma dall’appartenenza forte), il contributo alla vita buona e giusta nella società plurale. Significa, poi, dilatare con naturalezza, attraverso momenti di condivisione e convivialità, questa ricchezza di vita a quanti la Provvidenza manda quotidianamente al nostro incontro, perché cresca la fraternità tra persone e famiglie. Nelle famiglie cristiane simili esperienze sono già in atto. Si pensi, per esempio, alle modalità di accompagnamento e di aiuto vicendevole in situazioni di solitudine, di malattia, e di lutto; e a quelle di accoglienza (ospitalità, affido, adozione, integrazione degli immigrati…) che vedono la famiglia in quanto tale protagonista e testimone della carità ecclesiale. Dove sta la novità? In un cambiamento di stile. Deve maturare uno stile che, restando informale e attento al quotidiano, non sia però puramente occasionale, per non dire casuale; e soprattutto, che non anteponga organizzazione, schemi e tecniche alla freschezza dei rapporti. Tale indicazione non preclude, ovviamente, il sorgere di opere e iniziative più organiche.
Vorrei accennare, per concludere, a una possibile fondamentale implicazione di un simile semplice stile di vita familiare cristiana. Se si pone quale soggetto di evangelizzazione, la famiglia diventa una risorsa per superare l’involuzione subita dalla proposta cristiana a partire dalla tarda modernità e accentuatasi negli ultimi decenni. Questo fenomeno ha progressivamente generato, almeno in Italia, prima un’erosione e poi uno sbriciolamento del costume di vita sociale fortemente impregnato di riferimenti cristiani: è un dato storico che ha prodotto una graduale estraneazione del cristianesimo dalla vita comune. La Chiesa ha lasciato la via del quotidiano per assumere vie pastorali quasi parallele, costituite in maniera eccessiva di servizi (pur necessari) e iniziative (pur lodevoli). Ci troviamo oggi forse nella fase finale di questo processo, che ha di fatto allontanato la fede dalla vita quotidiana della gente, anche di molti battezzati.
In tale contesto, la famiglia si presenta come risorsa pastorale perché ha la capacità di “riportare la fede nella concretezza del quotidiano”. La fede, infatti, si alimenta e cresce se penetra il tessuto ordinario dell’esistenza.