Vengono considerati nomadi quando molti vivono ancora nei campi in cui sono nati. Il lavoro di accompagnamento di Sant’Egidio e Somaschi nel cammino verso l’autonomia e la dignità sociale
di Rosangela
VEGETTI
Tra le varie etnie e nazionalità presenti a Milano, i Rom costituiscono un capitolo davvero particolare, perché su di essi si sono cementati pregiudizi e mancanza di progettazione. Le notizie che di volta in volta compaiono in cronaca sono per lo più in chiave negativa e rafforzano l’ostilità nei confronti di questi nuclei di persone, relegati ai margini non solo sociali, ma anche umani per le condizioni abitative e di vita familiare cui sono costretti. La vera connotazione delle baraccopoli è la grande povertà che genera difficili percorsi di riemersione sociale e anche situazioni di devianza.
A Milano i Rom non sono mai stati molti: in maggioranza italiani e slavi, si trovano in 7 campi regolari, mentre altri sono in campi irregolari e in varie situazioni. «Il paradosso è che si parla di nomadi, quando in realtà si tratta di persone in maggioranza nate in questi campi, e quindi non nomadi – spiega Stefano Pasta, coordinatore dei progetti della Comunità di Sant’Egidio a favore dei Rom -. La politica abitativa attuata nel Centro-Nord Italia dagli anni Settanta, quando il fenomeno dei baraccati era forte, si è indirizzata ai campi regolari: per taluni non si tratta di vera progettazione politica, ma solo di ghetti. Per quanto riguarda le baraccopoli abusive, poi, in questo momento a Milano ci sono micro insediamenti sparsi e tante famiglie in casa; circa 200 persone vivono nel Centro di emergenza sociale di via Sacile, altri nei Centri di autonomia abitativa gestiti dalla Caritas».
Dal 2007 al 2011 si è registrato un vero accanimento sociale e legislativo contro i Rom, con sgomberi continui degli insediamenti; senza gli interventi umanitari di varie associazioni che non hanno mai fatto mancare l’attenzione alle categorie più fragili, a partire dai minori (assicurando loro, il più possibile, il diritto alla scuola e all’integrazione sociale), non si sarebbero aperti gli spazi di intervento pubblico attualmente in vigore.
Il primo passo è il riconoscimento dei diritti umani fondamentali per queste comunità marginali, che portano caratteri culturali e linguistici propri, ma che sono composte da famiglie e persone in condizioni di fragilità. «Il lavoro di accompagnamento per uscire dell’esclusione sociale è lungo e difficile – testimonia Valerio Pedroni, responsabile della Fondazione Somasca che da dieci anni opera nei campi regolari di Milano con l’appoggio dei servizi del Comune e di altri soggetti di aiuto (Opera San Francesco, Caritas Ambrosiana, Casa della Carità) -. Il criterio di intervento è quello soprattutto di rinforzare il tessuto umano positivo di ciascuna persona, per impegnarla e indirizzarla al proprio miglioramento nel processo di “capacitazione”, cioè rendersi capaci di costruirsi una vita integrata. L’atteggiamento diffuso è considerare in maniera stereotipata il fattore “rom”, quando invece si tratta di affrontare i problemi di persone e individui in situazioni di complessità».
Diverse famiglie sono sul cammino della propria autonomia, con un lavoro stabile, i bambini e i ragazzi a scuola (diversi già al termine di corsi professionali, qualcuno avviato a scuole superiori), e stabiliti in abitazioni in affitto: qualcuno sta pagando il mutuo per la propria casa. «Il vissuto di molte di queste persone è sempre segnato dal timore dell’esclusione – aggiunge Pasta -, ma ci sono anche belle esperienze di famiglie rom integrate, che sono di aiuto e di familiarità a vicini di casa o anziani. Alcune sono in parrocchia, come in S. Martino di Greco: esperienze di integrazione molto belle, con i bambini inseriti in oratorio e i genitori che partecipano alle attività della comunità».