All’ultima Veglia missionaria diocesana presenti in Duomo anche sacerdoti e religiose provenienti dall’estero per un percorso di studio e di vita pastorale in Diocesi. Come don Emery Ngoyi Muana, congolese, impegnato nella parrocchia milanese di San Pio V e Santa Maria di Calvairate, che però non ama la definizione “straniero”: «Sono prete e basta»

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di Luisa BOVE

«Un’esperienza bella e di scambio». Definisce così, don Emery Ngoyi Muana (45 anni), prete della Diocesi di Kananga (Repubblica democratica del Congo), il percorso di studio e di vita pastorale in terra ambrosiana. «Sono arrivato nella parrocchia di San Pio V e Santa Maria di Calvairate a Milano nell’ottobre 2012, in zona Porta Romana», racconta. Fin da luglio però si è fermato a Barzio, presso il Coe (Centro orientamento educativo), a imparare la lingua.

«Dopo il Seminario ho fatto un anno di stage, poi ho ricevuto l’incarico di economo che ho svolto per 11 anni. Ho usato le mie capacità umane e ho gestito bene, ma poi il mio Vescovo ha voluto mi preparassi». Si è quindi iscritto a Economia e gestione dei beni, ma non ha retto. «Non avevo la padronanza della lingua e le basi matematiche – spiega don Emery -, così dopo tre o quattro giorni sono andato in panico». Si è confrontato con don Antonio Novazzi, responsabile della Pastorale missionaria diocesana, e si è anche rivolto allo sportello psicologico dell’ateneo: «Alla fine ho cambiato facoltà e, senza perdere l’anno, mi sono iscritto a Scienze politiche e sociali nell’ambito della gestione delle imprese e delle risorse umane». Già al primo esame ha preso il massimo dei voti e poi tutto è continuato bene: «Non ho mai avuto ritardi nel percorso universitario, ho quasi finito gli esami e ho iniziato a scrivere la tesi».

La sua vita non è fatta solo di studio. In parrocchia celebra la Messa tutti i giorni, confessa e partecipa a varie attività pastorali. Ha iniziato con il parroco don Giorgio Gritti, di cui ha apprezzato le «capacità organizzative», e ora collabora con don Franco Gallivanone, che punta su una «pastorale della prossimità», perché «non sono solo le persone che devono venire da noi, ma noi possiamo e dobbiamo muoverci verso di loro. Oggi infatti si parla di Chiesa in uscita…». Si trova bene nella «squadra», come la chiama don Emery, composta oggi da 4 preti (lui compreso) e 2 diaconi permanenti: «Siamo una buona équipe e l’organizzazione mi piace, ci incontriamo ogni venerdì e programmiamo le celebrazioni e la vita della Chiesa». Ma non dimenticherà mai il suo primo Natale a Milano: quando ha celebrato la Messa alle 11.30 c’era poca gente e mancavano pure i lettori; ha scoperto dopo che la città si svuota durante le feste. «Sono rimasto molto deluso – ammette oggi -, da noi nei Tempi forti vengono a Messa anche le persone che di solito non frequentano».

Qualche anno fa ha avviato un gruppo in parrocchia chiamato «San Giuseppe e San Benedetto», rivolto ai papà che lavorano, che si riunisce l’ultimo venerdì di ogni mese. «La questione è come conciliare la vita della famiglia con il mondo del lavoro – spiega il sacerdote -. Non vogliamo che la famiglia sia trascurata perché siamo sempre al lavoro. Quest’anno abbiamo scelto un tema molto interessante “Investire sul futuro dei nostri figli”». In passato ha coinvolto una mamma che ha parlato del «marito ideale», mentre alcuni bambini hanno spiegato come potrebbe essere un «papà ideale». Al gruppo partecipano anche 18 persone che, oltre a confrontarsi, mangiano la pizza insieme.

Don Emery non ama le definizioni come «preti africani», «preti stranieri», «preti extracomunitari», «preti immigrati», «preti di colore» o «preti speciali», che appartengono – secondo lui – al linguaggio politico: «Dobbiamo fare in modo che i nostri parrocchiani non si lascino influenzare dai politici, la Chiesa deve andare oltre, perché tutte le categorie che si potrebbero usare sono discriminatorie. Noi siamo preti e basta».

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