Il cappellano dell’Istituto dei Tumori: «Ricerca e clinica non bastano, servono ospedali che pongano come priorità la centralità del paziente. Una “provocazione” anche per la comunità cristiana»
di Annamaria
BRACCINI
Come ha vissuto questi mesi di lockdown e di pandemia chi, per missione e impegno sacerdotale, vive tra le corsie di una realtà di cura grande e famosa nel mondo? Quali le sue impressioni? A raccontare la propria esperienza è don Tullio Proserpio, cappellano della Fondazione Ircss Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: «Da una parte, a livello sociale, c’è una nuova consapevolezza di fronte alle figure dei clinici e dell’équipe curante in generale, dall’altra vedo una certa stanchezza e pesantezza, legata anche al contingentamento delle presenze e alle difficoltà di muoversi. L’impossibilità di trovare valvole di sfogo al lavoro quotidiano e, magari, spazi di aggregazione, ha portato a nuove fatiche anche a livello degli stessi clinici, preoccupati ogni giorno di contrastare malattie importanti come quelle tumorali. Il fatto, poi, di non poter consentire ai parenti di stare vicini ai nostri ospiti diventa un’ulteriore fonte di tensione. Quindi, è certamente una situazione faticosa, maa qualcosa di positivo c’è. Ho sentito dire, non raramente “Io mi aggrappo al “Capo” (inteso come il Signore), che mi dà comunque fiducia, non mi delude e che, anche se talvolta non si capisce il suo modo di agire e di procedere, è base per la speranza».
Si è detto che le malattie tumorali e di altro genere sono aumentate molto, non si capisce se in relazione al virus o in quanto le persone si sono curate meno nei mesi scorsi. Dal suo punto di vista privilegiato ha questa sensazione?
Per quanto riguarda l’Istituto, sono state dilazionate le visite non strettamente necessarie. Che siano aumentate le malattie tumorali, non riesco a dirlo con esattezza, però posso assicurare che noi abbiamo seguito tutte le persone che ne avevano necessità. Siamo diventati un hub dal punto di vista oncologico anche per altri ospedali che sono stati convertiti prevalentemente per la cura della pandemia.
Avete avuto contagi tra il personale medico e i pazienti?
Dalla prima ondata di Covid subito è stato attivato un reparto dedicato, come si usa dire. Attualmente siamo un presidio Covid-free. Noi operatori sanitari siamo tutti vaccinati e regolarmente facciamo il tampone per vedere se siamo positivi o negativi. Abbiamo avuto membri del personale che si sono ammalati, ma, intervenendo in modo tempestivo, la cosa è stata tenuta sotto controllo.
La pandemia ha aiutato a comprendere che la morte esiste. Questa consapevolezza ora diffusa è una sfida per i credenti e, in specifico, per chi è sacerdote e opera nel campo della malattia?
La situazione che stiamo vivendo ha mutato il nostro modo di vedere la realtà, costringendoci a rivedere tanti luoghi comuni. Certamente ha toccato l’aspetto della comprensione della morte. Qui, in Istituto, che si muore – e non genericamente – lo si vede tutti i giorni. Credo che la pandemia abbia messo in evidenza come la miglior ricerca e la miglior clinica non siano sufficienti. È emerso un grande bisogno di umanità, di ospedali che sappiano “umanizzare” il dolore e la malattia, che pongano come priorità la centralità del paziente. Di cosa avevano bisogno le persone confinate per Covid? Di una vicinanza talvolta purtroppo impossibile. Questo provoca anche noi come comunità cristiana. Dobbiamo chiederci come siamo capaci di vivere relazioni di questo genere. Non a caso, la Pontificia Accademia per la Vita ha messo in evidenza questo aspetto, sottolineando l’importanza e la necessità di consentire tale approccio, nel rispetto di tutte le indicazioni e le norme, perché la vicinanza umana, affettiva, calorosa, non è meno importante della clinica medica in senso stretto e delle terapie.