Presso il Teatro Angelicum si è svolto l’incontro “Facciamo scuola, facciamo Chiesa”, dedicato ai coordinatori didattici delle scuole cattoliche e di ispirazione cristiana. «Seminare il bene costruendo rapporti costruttivi».
di Annamaria
Braccini
Una mattinata intera di dialogo e riflessione per parlare di responsabilità condivise, di attenzione all’unicità di ogni giovane, di valorizzazione dell’umano, di sinergie e alleanze virtuose tra tutte le agenzie educative.
Sono queste le vie da percorrere – sulle quali la Diocesi già da tempo procede con la convocazione di alcuni Tavoli di confronto territoriali – che l’Arcivescovo indica ai tanti che, provenendo da tutta la Diocesi, si sono ritrovati al Teatro Angelicum di Milano, per l’incontro “Facciamo scuola, facciamo Chiesa”, dedicato ai coordinatori didattici delle scuole cattoliche e di ispirazione cristiana. 441 tra primarie e secondarie di primo e secondo grado a cui si aggiungono 557 scuole dell’infanzia.
«La Chiesa di Milano sente che la scuola appartiene alla sua vita, alla sua missione, alla sua pastorale ordinaria. Fare scuola non è solo istruire, ma è un modo di vivere il mistero della Chiesa, facendo crescere la comunione. Non a caso, dove c’è esperienza di Chiesa c’è passione educativa, basti pensare a quante scuole sono sorte accanto alle parrocchie», spiega, nell’introduzione, monsignor Paolo Martinelli, Vicario episcopale di settore, ricordando la Lettera scritta dal Vescovo Mario al mondo scolastico l’anno scorso e l’attenzione che, compiendo la Visita pastorale, destina alle scuole sul territorio.
Tra 7 testimonianze – dopo la brillantissima performance, sulla figura di docenti e genitori, di Michele Diegoli, professore di Storia e Filosofia e autore di testi di cabaret – si articola il dialogo, moderato da don Fabio Landi, responsabile del Servizio per la Pastorale Scolastica della Diocesi.
Tornano i temi dell’appartenenza alla Chiesa, della chiamata a far crescere degli uomini, della professione educativa. «Di fronte a ragazzi sempre più fragili, eppure attratti dalle esperienze di bene che incontrano, il nostro ruolo di adulti è essere credibili», viene sottolineato.
Federico, al primo anno di Università, nel giorno del suo 20esimo compleanno, dice: «Abbiamo bisogno di qualcuno che creda in noi, ci stimoli a dare il meglio e che ci voglia bene per quello che siamo».
Don Giovani Pauciullo, parroco di “San Dionigi in Pratocentenaro”, in cui si trova la scuola parrocchiale – 270 alunni, 30 dipendenti, nata nel 1925 -, osserva: «Una parrocchia che fa scuola seriamente ha tra le mani uno strumento pastorale, educativo e culturale senza eguali. Questo rimane centrale anche nelle fatiche. Uno degli obiettivi importanti è coinvolgere la parrocchia in questo contesto, facendo alleanze».
L’intervento del Vescovo Mario
Appunto dall’alleanza si avvia l’intervento dell’Arcivescovo.
«C’è una sapienza che può immaginarsi come un contenuto – da consegnare -, che viene dalla cima del monte e, poi, c’è una scienza che viene da Nazaret, luogo della vita quotidiana, dove il figlio dell’uomo ha vissuto. Fare scuola non è avere distanza e superiorità, ma è un percorso che attraversa la vicenda umana in tutti i suoi aspetti e li illumina con la verità attraente che è il segreto di Gesù».
Una scienza – questa – amica e che sa prendersi cura delle ferite dell’umanità. «L’opera educativa si può descrivere come un curare le ferite: la Chiesa non è estranea nemmeno rispetto al mondo della scuola statale».
Ma come curare? Anzitutto con la comunità che accoglie. «La scuola è una terapia proprio perché chiede una disciplina e una regolarità – tutti i giorni si va a scuola -, perché è una comunità, un ambiente, una struttura, una dinamica di gruppo che promuove una dimensione relazionale, corporea, fisica e psicologica. La Chiesa che educa, in quanto è popolo, intende la scuola anzitutto come comunità».
Poi, lo sguardo che riconosce il valore della persona. «Nella Chiesa ogni persona è unica, con le sue ferite e imperfezioni. Lo sguardo che riconosce dice, ai bimbi della scuola di infanzia fino ai giovani della Maturità, che sono adatti, meritevoli di essere amati e per questo, capaci di amare».
È lo sguardo definito «realistico», che devono avere i docenti, i dirigenti, il personale che gestisce la scuola per aiutare ciascuno a dare il meglio di sé.
Arriva, così, un terzo passaggio: «Il percorso educativo nell’impegno scolastico, è caratterizzato da una voce che chiama. C’è un modo di interpellare la libertà – come ha fatto Gesù con Matteo – che fa alzare in piedi e camminare perché c’è una mèta che vale la pena desiderare».
Il tema è quello vocazionale. «Vivere la vita come vocazione è una categoria oggi cancellata, anche nei nostri linguaggi educativi. Educare, formare, istruire sono tutti verbi sussidiari del verbo chiamare. L’adulto rivolge una parola alla libertà di questi giovani per indicare la mèta e dare una speranza. Altrimenti temo che i nostri ragazzi possano diventare macchine potentissime che restano, però, parcheggiate perché, pur avendo tutte le possibilità di correre, non si sa dove andare e il futuro non esiste più. C’è un mondo che merita di essere conosciuto, non scritto nei libri, ma come sapere umano che interpreti tutti i saperi. L’insegnamento delle singole discipline deve essere inserito in una visione ampia dell’umanità».
Questo «il punto da sottolineare per l’ambizione che abbiamo: formare non solo persone che sanno stare al mondo, ma che trasformano il mondo. Facciamo scuola vuole dire proprio fare Chiesa e fare Chiesa significa indistricabilmente fare scuola».
Poi, le domande rivolte direttamente all’Arcivescovo: «In che modo aiutare i docenti a vivere il loro lavoro come missione?».
«Non vi è una vera risposta. La discriminazione che subiscono le nostre scuole, con condizioni più sfavorevoli dal punto di vista economico, è un cruccio. Se ne può uscire con la consapevolezza di un giudizio di valore sul carisma delle nostre scuole. Un altro percorso, che può convincere i docenti a restare, è la condivisione della proprietà della scuola dove gli insegnanti non sono solo dipendenti, ma agiscono con forme di partecipazione».
Ancora: «Come mantenere vivo il riferimento ecclesiale delle scuole parrocchiali, magari dove il parroco è lontano e carica i coordinatori di responsabilità?»
«Questa domanda tocca un nervo scoperto. La Chiesa di Milano, attraverso i suoi Tavoli a livello territoriale, gli incontri di questo tipo e altre iniziative, possono aiutarci a sentire l’appartenenza. È un percorso che la Diocesi vuole fare, con il Vicario di Settore e i Servizi scolastici della Curia. Occorre anche l’attenzione delle famiglie come soggetto determinante. Dobbiamo passare dall’idea di una famiglia-cliente, alla condivisione educativa con i genitori, conquistando tutti alla causa di sentirsi sentire membra della comunità e non solo parte passiva di un’istituzione.
Il fatto che la nostra scuola sia desiderabile, deve venire dall’identità. Rispetto a chi si mette sul piano del mercato, dobbiamo ricordare che noi proponiamo un’offerta di valore che ha a cuore il bene della persona. Le nostre scuole devono comprendere che, talvolta, siamo inferiori, non perché siamo meno qualificati, ma perché ci sono cose che non possiamo offrire per questioni economiche. Non è la gara a chi arriva primo nelle classifiche del Miur che ci deve sostenere, ma la consapevolezza che seminiamo del bene costruendo rapporti costruttivi».
Una preghiera scritta appositamente dall’Arcivescovo per la scuola, donata a tutti e recitata coralmente, suggella l’incontro.